Tesi Rivoluzione Polacca Vol. 1- 2 L'insurrezione di gennaio 1863 1864 Aufstand

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Verkäufer: xzy-blond1937 ✉️ (261) 100%, Artikelstandort: Berlin, DE, Versand nach: AMERICAS, EUROPE, ASIA, Artikelnummer: 266726811987 Tesi Rivoluzione Polacca Vol. 1- 2 L'insurrezione di gennaio 1863 1864 Aufstand. Aus meiner Sammlung zu Rätekommunismus, Anarchismus, Sozialismus, revolutionäre Bewegung etc. stelle ich demnächst etliches ein, also einfach ab und zu wieder bei mir hereinschauen, wenn Interesse besteht (Jegliches hat sein Zeit .... hoffentlich) >>>

Carlo Tesi:

Storia della rivoluzione polacca Storia della rivoluzione polacca : 

preceduta da un sunto storico sulla Polonia dal 10. secolo fino ai nostri tempi.. 

Bd./Vol.  1 + 2 [= vollständig / complete;]

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Aus Wiki:

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L'insurrezione di gennaio (in polacco powstanie styczniowe; in lituano 1863 m. sukilimas; in bielorusso Паўстанне 1863-1864 гадоў?, Paŭstanne 1863-1864 hadoŭ; in ucraino Польське повстання?, Pol's'ke povstannja) fu la più lunga rivolta polacca contro l'Impero russo: ebbe inizio il 22 gennaio 1863 e gli ultimi insorti furono catturati nel 1864. Iniziò come protesta spontanea da parte dei giovani polacchi contro la coscrizione all'interno dell'esercito russo; a loro si unirono subito diversi politici polacchi e alti ufficiali dell'esercito zarista. Gli insorti, in numero molto inferiore ai russi e privi del sostegno estero, furono obbligati a tattiche di guerriglia; essi non riuscirono ad ottenere nessuna grande vittoria e durante la campagna non fu tolta ai russi alcuna città o fortezza nella Polonia occupata. L'insurrezione ebbe tuttavia successo nel vanificare gli effetti dell'abolizione della schiavitù effettuata dallo zar, che aveva pensato così di conquistare l'appoggio dei contadini emancipandoli e mettendoli contro il resto della nazione polacca. Dopo la rivolta, vennero effettuati diversi atti di repressione contro i polacchi, come esecuzioni pubbliche o deportazioni in Siberia, che ebbero l'effetto di indurre i polacchi ad abbandonare la lotta armata e ad attestarsi invece su una linea di "lavoro organico" — il miglioramento economico e culturale.

Storia

Dopo una serie di rivolte patriottiche, il namestnik dello zar Alessandro II di Russia, il generale Karl Lambert, introdusse, il 14 ottobre 1861, la legge marziale in Polonia. L'insurrezione scoppiò quando il Partito Rivoluzionario non ebbe mezzi sufficienti per armare ed equipaggiare le bande di giovani uomini che si nascondevano nelle foreste per scappare all'ordine di coscrizione di Aleksander Wielopolski nell'Esercito Russo, in un momento in cui in Europa regnava la pace quasi ovunque. Circa 10.000 uomini si radunarono intorno al proclamatore della rivoluzione, sebbene ci fossero anche un gran numero di giovani della szlachta più povera e alcuni sacerdoti di estrazione più umile.

Per confrontarsi con queste bande male armate, il governo aveva a disposizione un esercito di 90.000 uomini ben equipaggiato ed al comando del generale Ramsay in Polonia, 60.000 in Lituania e 45.000 in Volinia. In un primo momento sembrò che la ribellione potesse essere velocemente sedata, pertanto il governo provvisorio affrontò la rivolta con grande impegno. Emise un manifesto in cui dichiarava «tutti i figli della Polonia cittadini liberi e uguali senza distinzione di credo, condizione e grado». Dichiarò che le terre coltivate dai contadini, se sulla base di affitto o servizio, sarebbero divenute di loro proprietà e lo Stato avrebbe risarcito i proprietari terrieri con le proprie finanze. Il governo rivoluzionario fece del suo meglio per fornire al suo esercito gli armamenti e scoppiarono le guerriglie che, nel mese di febbraio, portarono russi e polacchi a scontrarsi in otto battaglie sanguinose. Nel frattempo il governo rivoluzionario emise un appello alle nazioni dell'Europa occidentale, che fu ricevuto ovunque con risposte genuine e affettuose, dalla Norvegia al Portogallo. Papa Pio IX ordinò una preghiera speciale per il successo dei polacchi cattolici contro i russi ortodossi e fu molto attivo nel suscitare le simpatie per i ribelli polacchi.

L'esercito russo a Varsavia durante la legge marziale del 1861.

Il governo provvisorio contò su uno scoppio rivoluzionario in Russia, dove lo scontento per il regime autocratico sembrava essere prevalente. Contò anche sul sostegno attivo di Napoleone III, particolarmente dopo che la Prussia, prevedendo un conflitto armato inevitabile con la Francia, aveva aperto amichevolmente alla Russia e le aveva offerto assistenza nella soppressione della rivolta polacca. Il 14 febbraio gli accordi erano già stati completati e l'ambasciatore britannico a Berlino informò il suo governo che un inviato militare prussiano «...aveva concluso una convenzione militare con il governo russo, secondo la quale i due governi avrebbero affrontato insieme le difficoltà nella soppressione dei movimenti rivoluzionari, che avevano luogo in Polonia. Le ferrovie prussiane si erano anche messe a disposizione delle autorità militari russe per il trasporto delle truppe attraverso il territorio prussiano da una parte all'altra del Regno di Polonia». Questo passo di Bismarck portò a proteste da parte di diversi governi e infiammò la nazione polacca. Il risultato fu la trasformazione da rivolta insignificante a guerra nazionale contro la Russia. Incoraggiata dalle promesse di Napoleone III, l'intera nazione, agendo su consiglio di Władysław Czartoryski, figlio del principe Adam Czartoryski, imbracciò le armi. Evidenziando la propria solidarietà alla nazione, tutti i polacchi detentori di cariche nel governo russo, incluso l'arcivescovo di Varsavia, si dimisero e si sottomisero al nuovo governo polacco, che fu composto dai cinque rappresentanti più significativi dei Bianchi.

Zuavi della Morte (żuawi śmierci), unità di rivolta del 1863 organizzata da François Rochebrune. Disegno (pubblicato nel 1909 di K. Sariusz-Wolski, tratto da una fotografia. Da sinistra: il conte Wojciech Komorowski, il colonnello Rochebrune, tenente Bella

Questa trasformazione dell'insurrezione in guerra cambiò l'intero aspetto della situazione. Fu organizzato un esercito di 30.000 uomini e furono attuate nuove coscrizioni. I più ricchi delle città offrirono grandi somme di denaro alla causa della rivolta. La nobiltà della Galizia e del Granducato di Poznań sostennero la guerra con denaro, rifornimenti e uomini. Il Granducato di Lituania insorse sotto il comando di Konstanty Kalinowski e subito la fiamma della guerra scoppiò in Samogizia, Livonia, Bielorussia, Volinia, Podolia e in alcune regioni dell'Ucraina.

L'intervento diplomatico delle potenze a favore della Polonia, non sostenuto, eccetto nel caso della Svezia, da una determinazione reale in difesa della nazione, fece più male che bene. Alienò l'Austria, che fino a quel momento aveva mantenuto una neutralità amichevole nei confronti della Polonia e non aveva interferito con le attività polacche in Galizia; pregiudicò l'opinione pubblica tra i gruppi radicali che, fino a quel momento, erano stati amichevoli perché guardavano alla rivolta come evento sociale più che nazionale e spinse il governo russo a sforzi più energici nella soppressione delle ostilità che crescevano in forza e determinazione.

Oltre ai duemila che perirono in battaglia, 128 uomini furono impiccati personalmente da parte di Murav'ëv-Vilenskij e 9.423 uomini e donne furono esiliati in Siberia (2.500 uomini secondo i dati ribassati della Russia, ma Norman Davies fornisce il numero di 80.000, sottolineando che fu la maggiore deportazione della storia russa[1]). Interi villaggi e città furono dati alle fiamme; tutte le attività furono sospese e la szlachta fu rovinata con la confisca e con tasse esorbitanti. Tali furono le brutalità commesse dalle truppe russe, che le loro azioni furono condannate in tutta Europa e anche nella stessa Russia Murav'ëv fu ostracizzato[2]. Il conte Friedrich Wilhelm von Berg, il neo-creato Namestnik di Polonia, seguì le impronte di Murav'ëv, impiegando misure disumane contro la nazione. I Rossi criticarono il governo conservatore per la sua politica reazionaria in relazione ai contadini, ma, deluso nelle sue speranze da Napoleone III, il governo contò sul sostegno francese e persistette nelle sue tattiche. Fu solo dopo che il rispettato e saggio Romuald Traugutt scese in campo, che la situazione divenne meno violenta.

Battaglia di Węgrów, 1863

Si rifece alla politica del primo governo provvisorio e cercò di portare alla partecipazione attiva le masse popolari, e soprattutto i contadini, garantendo loro le terre che coltivavano e chiedendo a tutte le classi sociali di insorgere. La risposta fu generosa ma non universale, in quanto questa saggia politica fu adottata troppo tardi. Il governo russo aveva già lavorato tra le masse contadine nella maniera sopra descritta e concedendo loro parte delle terre che chiedevano. I combattimenti continuarono in maniera intermittente per diversi mesi. Tra i generali, il conte Józef Hauke-Bosak si distinse principalmente come comandante delle forze rivoluzionarie e strappò diverse città all'esercito russo, superiore numericamente. Quando Romuald Traugutt e quattro altri membri del governo polacco furono catturati dalle truppe russe e giustiziati nella cittadella di Varsavia, la guerra, nel corso della quale furono combattute 650 battaglie e morirono 25.000 polacchi, giunse a una rapida conclusione nell'ultima parte del 1864, dopo essere durata diciotto mesi. È interessante notare che la guerra proseguisse in Samogizia e Podlachia, dove la popolazione greco-cattolica, perseguitata per la fede religiosa, si oppose alla fine della rivoluzione.

La rivolta fu infine repressa dalla Russia nel 1864.

Soldati russi che depredano una residenza polacca

Nonostante il fallimento dell'insurrezione, le seguirono aspre repressioni. Secondo l'informazione ufficiale russa, furono giustiziate 396 persone e 18.672 furono esiliate in Siberia. Un gran numero di uomini e donne fu inviato all'interno della Russia e nel Caucaso, negli Urali o in altre parti. In totale, circa 70.000 persone furono imprigionate e in seguito condotte al di fuori della Polonia verso le regioni remote della Russia. Il governo confiscò 1.660 tenute in Polonia e 1.794 in Lituania, e fu imposta una tassa del 10% sulle rendite come indennità di guerra. Solo nel 1869 questa tassa fu ridotta al 5% delle rendite. Oltre le terre concesse ai contadini, il governo russo consegnò loro ulteriori foreste, pascoli e altri privilegi (conosciuti come servitù), che fecero sorgere malcontenti e irritazione tra proprietari terrieri e braccianti e apportarono serie difficoltà allo sviluppo economico. Il governo tolse alla chiesa le tenute e i campi, abolì monasteri e conventi. Con l'eccezione dell'istruzione religiosa, tutte le altre materie scolastiche dovettero essere insegnate in russo. Il russo divenne anche lingua ufficiale della nazione, utilizzata esclusivamente nelle cariche del governo nazionale e locale. Tutte le tracce della passata autonomia polacca furono rimosse e il regno fu diviso in dieci province, ognuna con un governatore militare russo e sotto il completo controllo del Governatore Generale a Varsavia. Tutti i precedenti funzionari di governo furono privati delle loro posizioni.

Insorti famosi

Cappella a Vilnius che commemora la soppressione della rivolta del 1863.

    Stanisław Brzóska (1832–1865) fu un prete polacco e comandante verso la fine dell'insurrezione.

    Władysław Niegolewski (1819–1885) fu un politico polacco liberale e membro del Parlamento, insorto nella rivolta della Grande Polonia del 1846, del 1848 e nella rivolta di gennaio; fu cofondatore nel 1861 della Società Economica Centrale (TCL) e nel 1880 della Società delle Biblioteche Popolari (CTG).

    Konstanty Kalinowski (1838–1864) fu uno dei capi delle rivolte in Lituania e Bielorussia e capo della rivolta di gennaio nelle terre dell'ex Granducato di Lituania.

    San Raphael Kalinowski, nato Józef Kalinowski in Lituania, si dimise da Capitano dell'Esercito Russo per divenire Ministro della Guerra per gli insorgenti polacchi. Fu arrestato e condannato a morte, ma la sentenza fu poi mutata in 10 anni di esilio in Siberia, incluso un viaggio terribile di nove mesi per giungervi.

    Aleksander Sochaczewski, pittore.

La rivolta di gennaio in letteratura

Addio all'Europa, di Aleksander Sochaczewski. L'artista stesso è tra gli esiliati, presso l'obelisco, sulla destra.

    Nel capitolo iniziale di Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne, il Capitano Nemo era un nobile polacco la cui famiglia era stata brutalmente assassinata dai russi durante la rivolta di gennaio del 1863. Dato che la Francia aveva recentemente siglato un'alleanza con la Russia imperiale, nella versione finale del romanzo l'editore di Verne, Pierre-Jules Hetzel, censurò la vicenda.

    Nel romanzo di Guy de Maupassant Pierre et Jean, il protagonista Pierre ha un amico, Marowsko, un vecchio chimico polacco di cui si dice che sia arrivato in Francia dopo gli eventi sanguinosi nella sua madrepatria. Questa storia potrebbe riferirsi alla rivolta di gennaio.

    Nel capitolo iniziale de Il giocatore di Dostoevskij, il protagonista, russo, irride alla solidarietà dei francesi alla causa polacca e al loro sdegno nei confronti della Russia.

Bibliografia

    Peter Kropotkin, Memorie di un rivoluzionario Archiviato il 23 giugno 2007 in Internet Archive. & Co., 1899, pp. 174–180.

    Augustin O'Brien San Pietroburgo e Varsavia: scene del periodo della residenza in Polonia e Russia nel 1863-1864 (1864),

Als Januaraufstand[1] (polnisch powstanie styczniowe) wird eine vor allem gegen die russische Teilungsmacht gerichtete polnische Erhebung in Kongresspolen sowie in litauisch-belarussischen Gouvernements des Russischen Kaiserreichs in den Jahren 1863/64 bezeichnet. Der Aufstand, dem sich auch Teile des Bürgertums und Bauern anschlossen, wurde hauptsächlich von den adligen Schichten geführt.[2] Der Kampf der schlecht ausgerüsteten Aufständischen, die trotz Sympathien in England und Frankreich keinen militärischen Beistand gegen die kaiserlich-russischen Truppen erhielten, wurde vor allem als Partisanenkrieg geführt. Trotz einiger Erfolge wurde der Aufstand brutal niedergeschlagen, auch weil es nicht gelang, ähnlich wie zu Zeiten des Novemberaufstands 1830/31, die große Masse der Bauern für den Aufstand zu gewinnen.[3] In der Folge wurden sämtliche polnischen Sonderrechte aufgehoben, und es begann eine Politik der verstärkten Russifizierung.

Vorgeschichte

Alexander Graf Wielopolski

Nach der Niederlage im Novemberaufstand 1830/31 und der kurzen Hoffnung des „Sturmjahres“ 1848 (vgl. Märzrevolution) machte sich in weiten Kreisen patriotisch bewusster Polen eine politische Depression breit. Daneben trat aber auch das Bestreben, durch Aufklärungs- und Bildungsarbeit den Prozess der Entstehung einer neuen, von einem gebildeten Mittelstand getragenen Nationsgesellschaft nach Kräften zu fördern und sich nicht in Konspiration und heroischem Kampf, sondern im Alltag nationaler und wirtschaftlicher Auseinandersetzungen zu bewähren.

Eine politisch neue Situation schien mit dem Krimkrieg Mitte der 1850er Jahre entstanden zu sein. Die Hoffnung, dass der Krieg von Großbritannien und Frankreich gegen Russland zu Veränderungen auch für Polen führen würde, erfüllte sich indes nicht. Auch erwies sich die polnische Diaspora als zerstritten. Nach dem Krimkrieg kam es auch im russisch besetzten Polen unter dem neuen Zaren Alexander II. zu Reformen. Dazu gehörten politische Gesten wie die Freilassung politischer Gefangener. Polen wurden für den Verwaltungsdienst zugelassen und 1857 wurde eine medizinische Hochschule in Warschau gegründet. Diese wurde bald zum Zentrum der jungen Intellektuellen des Landes. Die oppositionell gesinnten Kräfte begannen sich in die revolutionären „Roten“ und die eher liberal-gemäßigten „Weißen“ zu differenzieren. Eine größere Basis als diese Kreise hatte eine Agrargesellschaft (Towarzystwo Rolnicze) mit 4000 Mitgliedern und Gliedorganisationen in zahlreichen Gebieten unter Leitung des eher konservativen Magnaten Andrzej Artur Zamoyski. Im Jahr 1859 forderte der Kaiser den polnischen Adel auf, Vorschläge für Agrarreformen zu unterbreiten. In diesem Zusammenhang gewann Aleksander Wielopolski an Einfluss.

Verschärfung der Lage

„Das Massaker von Warschau 1861“ (von Tony Robert-Fleury)

Russische Infanterie schießt 1861 auf polnische Zivilisten auf dem Schlossplatz zu Warschau.

Begräbnis von Opfern der Demonstrationen in Warschau von 1861

Die wirtschaftliche Situation im russisch besetzten Polen war vergleichsweise günstig, und eine aus der Not heraus geborene revolutionäre Situation bestand nicht. In Warschau gewannen allerdings die Diskussionen unter den Studenten mit ihrer Mischung aus romantischer Schwärmerei und polnischem Nationalismus an Bedeutung. Hinzu kam die Diskussion um die Landreform. Teilweise wurden auch politische Forderungen etwa nach einer Autonomie artikuliert.

Nach einer Reihe von religiös-nationalen Feiern (z. B. einem Trauergottesdienst anlässlich der 30-Jahr-Feier des Novemberaufstandes) wurden am 25. Februar 1861 (Jahrestag der Schlacht bei Grochów) und am 27. Februar Massendemonstrationen veranstaltet. Diese sollten die Agrarische Gesellschaft, die zu diesem Zeitpunkt ihre Jahresversammlung abhielt, zu raschen Entschlüssen bezüglich der – in Russland gleichzeitig, am 19. Februarjul. / 3. März 1861greg., verkündigten – Bauernbefreiung veranlassen. Bei der Demonstration wurden fünf Personen durch Schüsse der Kosaken getötet, was die nationale Erregung weiter verstärkte.

Auf der anderen Seite suchte Alexander II. einen größeren Konflikt in Polen zu vermeiden. Denn die politisch tonangebende Schicht in Russland (Adel und höhere Beamte) war mit den Auseinandersetzungen über die von Alexander II. verfügte „Große Reform“ der Bauernbefreiung befasst. Diese hob die Leibeigenschaft auf und veränderte zugleich die Agrarverfassung und damit eine Grundlage des Zusammenlebens auf den Dörfern und in den Gutsbezirken. Er reagierte mit Zugeständnissen, hob aber auch die Agrargesellschaft auf.[4]

Aleksander Wielopolski wurde zum Leiter eines neuen Departements für Unterricht und Kultus ernannt. Auf diesen ging auch die Wiedereröffnung der Universität Warschau zurück. Es wurden ein Staatsrat und polnische Selbstverwaltungsorgane (so in Warschau die Delegacja Miejska) eingeführt. Allerdings führte die Nähe Wielopolskis zu den Russen dazu, dass er sich von den anderen politischen Kräften und der polnischen Öffentlichkeit entfernte.

Neue Demonstrationen, deren Unterdrückung zahlreiche Todesopfer forderte, verschärften die Gegensätze. Es kam über bisherige soziale und religiöse Grenzen zum Wachsen einer nationalen Stimmung. So hatten sich auch die Juden für ein Zusammengehen mit den Polen ausgesprochen. Am 8. April 1861 kam es erneut zu einer großen Demonstration, in deren Verlauf mehr als hundert Menschen getötet wurden. Die Lage spitzte sich weiter zu, weil der neue Vizekönig Graf Karl Lambert verstärkt auf die militärische Karte setzte. Damit verlor Wielopolski weiter an Rückhalt. Vor dem wachsenden Druck gewannen die Kirchen an Bedeutung. Bei der Beisetzung von Erzbischof Antoni Melchior Fijałkowski kam es zu neuen Kundgebungen, was zur Verhängung des Kriegsrechts führte. Die Soldaten drangen sogar in die Kirchen ein und verhafteten Tausende von Personen. Wielopolski protestierte dagegen. Damit büßte er auch bei den Russen an Vertrauen ein. Unter Bewachung ließ ihn Alexander II. zur Berichterstattung kommen. Während Wielopolski für mehrere Monate in Russland war, verschärfte sich die antirussische Stimmung in Warschau weiter.

Sowohl die gemäßigte Seite um Zamoyski wie auch die radikaleren Kräfte begannen Untergrundorganisationen aufzubauen. Es existierte ein Aktionskomitee, das auch die Verbindung mit den Emigranten aufrechterhielt. Nach der Rückkehr Wielopolskis konnte dieser seine Position noch einmal stabilisieren und agierte unter dem neuen Vizekönig Konstantin Nikolajewitsch Romanow fast wie der Chef der polnischen Verwaltung. Es kam zu einer Reihe weiterer Zugeständnisse wie der Einrichtung einer polnischen Verwaltung, einem Ausbau der Universität, der Erklärung der Gleichberechtigung der Juden und der Ankündigung einer Landreform. Der Konflikt mit der katholischen Kirche wurde beigelegt. Allerdings wurde der gemäßigte Zamoyski des Landes verwiesen. Dadurch gewannen die Radikalen („Die Roten“) weiter an Einfluss. Im Sommer 1862 wurde das Aktionskomitee in ein Nationales Zentralkomitee (Komitet Centralny Narodowy) umgewandelt. Dieses betrachtete sich als Untergrundregierung. Es begann im November mit der Planung eines großen Aufstandes.

Ausbruch des Aufstandes

Manifest des Zentralkomitees vom 22. Januar 1863

Ein großes Problem war, dass die Polen militärisch unzureichend vorbereitet waren und kaum über Waffen verfügten. Der Versuch, im Ausland Waffen zu kaufen, scheiterte. Die Verschwörer sahen sich zudem zum Losschlagen gezwungen, als Wielopolski eine große Einberufung (polnisch „Branka“) von 10.000[5] der Konspiration verdächtigten jungen Polen zum russischen Militärdienst, der 15 Jahre dauerte,[6] für Januar 1863 auf Basis von Namenslisten ankündigte,[7] um so möglichst viele potenzielle Aufständische loszuwerden. Die radikalen Kräfte setzten durch, dass der Aufstand vor diesem Hintergrund, trotz der erst mangelhaften Vorbereitung, beginnen sollte.

Der am 22. Januar 1863 ausbrechende Aufstand unterschied sich grundlegend vom Novemberaufstand, denn die Aufständischen verfügten weder über ausgebildete Verbände noch über genügend Waffen noch über eine klare militärische Führung. Das Nationalkomitee ließ ein Manifest verbreiten, das die Völker des alten polnisch-litauischen Reiches, also Polen, Ukrainer und Litauer, zum Aufstand aufrief. Den Bauern sollte das von ihnen bebaute Land gehören, und den Landlosen wurde Land aus Staatsbesitz versprochen. In einem weiteren Manifest wandte man sich an die Juden und versprach die Gleichberechtigung.

Noch bevor es zu einem organisierten Vorgehen kam, überfielen bäuerliche Aufständische spontan die Garnisonen der Russen. Der zum Oberbefehlshaber und Diktator vorgesehene Ludwik Mierosławski wurde, als er Mitte Februar vom Kujawien aus mit einer kleinen Schar vorzudringen versuchte, sofort geschlagen, musste sich nach wenigen Tagen zurückziehen und konnte seine Funktion nie ausüben. Sein Nachfolger wurde Marian Langiewicz, der nur wenige Wochen im Amt war. Von Juni bis September amtierte die Nationalregierung von Karol Majewski.

Verlauf

Fotografie von Teilnehmern des Aufstandes aus dem Jahr 1863

Zu einer wirklichen allgemeinen Erhebung kam es nicht. Gleichwohl reichte die Bewegung weit über das Königreich Polen hinaus. Ergriffen wurden Teile der heutigen Ukraine, Belarus und Litauen. Aus der preußischen Provinz Posen und dem österreichischen Galizien kam Hilfe. Die Polen kamen auf nicht mehr als ca. 30.000[8] Mann, die gleichzeitig kämpften. Aber über den gesamten Zeitraum der Kämpfe zusammen genommen, waren daran mehr als 200.000[8] Mann beteiligt. Ein entscheidendes Problem war, dass die Aufständischen die Stadt Warschau nicht unter ihre Kontrolle bekommen konnten. Es fehlte damit ein Zentrum, und die nationale Regierung war gezwungen, im Land hin und her zu ziehen. Allerdings gelang es, in Warschau eine Art Untergrundverwaltung zu organisieren. Diese verfügte über eigene Post- und Eisenbahnverbindungen sowie eine Polizei.

Auch wenn Großbritannien, Frankreich und Österreich die Wiederherstellung der Verfassung von 1815 forderten, übte dies keinen Einfluss auf die russische Haltung aus. Allerdings führte dies dazu, dass sich auch immer mehr gemäßigte Weiße dem Aufstand anschlossen. Der neue preußische Ministerpräsident Otto von Bismarck schloss in seinem Machtkalkül mit Russland die Alvenslebensche Konvention ab, die besagte, dass es den Truppen beider Seiten erlaubt sein sollte, zur Verfolgung polnischer Aufständischer vorübergehend die Grenzen zu überschreiten. Bismarck, der im polnischen Aufstand eine Gefahr für die territoriale Integrität der östlichen Provinzen des Königreichs Preußen gesehen hatte, war der Ansicht, dass Preußen ein natürlicher Gegner der autonomen nationalen Entwicklung des Königreichs Polen bleiben müsse.[9][10]

Die russische Armee, die gegen die Aufständischen eingesetzt wurde, war etwa 300.000 Mann stark. Es kam nicht zu Schlachten und großen militärischen Operationen wie 1830/31 und im April/Mai 1848, sondern lediglich zu kleinen Gefechten und einem immer neu aufflackernden Partisanenkampf, meist in unübersichtlichen Waldgebieten. Die Aufständischen konnten nach hohen Verlusten zu Beginn den Russen im weiteren Verlauf der Kämpfe verschiedentlich empfindliche Niederlagen beibringen, und sie beherrschten zeitweilig auch einige kleine Städte. Ernsthaft gefährden konnten die Polen die militärische Übermacht der Russen aber nie. Seit Sommer 1863 hatte als neuer Statthalter der General Friedrich Wilhelm Rembert von Berg das Kommando. Er ging mit Härte gegen die Aufständischen vor. Es wurden Todesurteile verhängt, Güter wurden eingezogen und es kam zu Verbannungen nach Sibirien.

In belarussischen Gebieten sahen die Aufständischen kaum Unterstützung durch die orthodoxe Landbevölkerung. Andererseits versuchte die russische Regierung die orthodox-bäuerlichen Unterschichten gegen den polnischen Adel, der erneut seine Illoyalität gezeigt hatte, auszuspielen.[11] Der daraufhin einsetzende aufständische Terror gegen die einfachen Belarussen verstärkte deren Ablehnung des Aufstands erheblich, so dass die Bauern selbst Partisanenverbände gegen die polnische Szlachta bildeten und die russische Staatsmacht mit der Gefangennahme und Auslieferung von Aufständischen unterstützten.[12]

Im Winter 1863/64 sammelte der ehemalige Offizier Romuald Traugutt als Diktator noch einmal die polnischen Kräfte. Mit seiner Verhaftung im April 1864 war der Aufstand nach 15 Monaten beendet. Eine letzte Partisanengruppe unter dem Priester Stanisław Brzóska wurde erst im Dezember 1864 zerschlagen.

Folgen

Die russische Reaktion auf den Januaraufstand folgte dem Szenario von 1831.[13] In Kongresspolen und den russischen „Westprovinzen“ wurden etwa 400 Aufständische hingerichtet,[13] etwa 2.500 zur Zwangsarbeit verurteilt (darunter der 1991 heiliggesprochene Raphael Kalinowski) und 20.000 nach Sibirien oder in andere Teile Russlands deportiert.[14][13] Tausende von Adelsfamilien wurden enteignet und verarmten[14] (etwa 3.500 Güter polnischer Adeliger wurden eingezogen).[13] Außerdem wurden hohe Sonderabgaben erzwungen. Die russische Polenpolitik der folgenden Jahrzehnte verfolgte das Ziel, die polnische Frage durch Repression und Zwangsintegration mit dem Russischen Reich ein für alle Mal zu lösen. Wie schon beim Ausbruch des Novemberaufstands 1830 fand sie Unterstützung bei der Mehrheit der gehobenen russischen Öffentlichkeit, die von einer neuen Welle der Polenfeindschaft erfasst wurde.[13] Das politische Leben wurde fast gänzlich unterdrückt. Der Name Königreich Polen wurde durch die Bezeichnung „Weichselland“ ersetzt. An die Stelle von Vizekönigen traten Generalgouverneure mit großen Vollmachten. Die polnischen Verwaltungsinstitutionen wurden aufgelöst, und russische Beamte verwalteten nunmehr das Land.[15] Lediglich der Code Napoléon blieb von der früheren Ordnung in Kraft. Selbst gegen die katholische Kirche ging die Regierung des Zaren streng vor. Zahlreiche Bischofssitze waren über längere Zeit vakant. Die unierte Kirche wurde der russisch-orthodoxen Kirche unterstellt. Die Lehrpläne der Schulen und Hochschulen wurden denen in Russland angepasst. Unterrichtet wurde nunmehr bis auf das Fach Religion auf Russisch. Diese Schwächung des Bildungssystems hatte zur Folge, dass die Analphabetenquote auf 70 Prozent stieg. Außerdem folgte der Niederlage eine neue Emigrationswelle. Zu einem der Zentren der polnischen Emigration wurde Dresden.[14]

Generalgouverneur Murawjow-Wilenski

Ähnlich war die Reaktion in Belarus und Litauen. Nach dem Januaraufstand entfernte Gouverneur Michail Murawjow-Wilenski das bis dato gesellschaftlich dominierende polnische Element aus der Verwaltung und dem Bildungswesen und übertrug dessen Landbesitz an die überwiegend orthodoxe bäuerliche Bevölkerung. Es wurden große Anstrengungen unternommen, um der ostslawischen Bevölkerung nach Jahrhunderten der erzwungenen Polonisierung der Eliten nachhaltig das Bewusstsein der eigenen Kultur und Geschichte zurückzugeben.[16] Es wurde eine Kommission zur Aufarbeitung alter Dokumente und Chroniken eingesetzt, orthodoxe Kirchen und Schulen wurden gebaut. Auf der Basis der damals vorherrschenden Vorstellung vom dreieinigen russischen Volk wurde die Politik der Russifizierung als Wiederbelebung und Stärkung der regionalen russischen (belarussischen und kleinrussischen Identität) verstanden. Als Generalgouverneur von Wilna setzte Murawjow 1864 auch ein Verbot der lateinischen Schrift und des Drucks litauischer Texte durch. Das Verbot wurde erst 1904 aufgehoben.

The January Uprising (Polish: powstanie styczniowe; Lithuanian: 1863 metų sukilimas; Ukrainian: Січневе повстання; Russian: Польское восстание; Belarusian: Паўстанне 1863–1864 гадоў) was an insurrection principally in Russia's Kingdom of Poland that was aimed at the restoration of the Polish–Lithuanian Commonwealth. It began on 22 January 1863 and continued until the last insurgents were captured by the Russian forces in 1864.

It was the longest-lasting insurgency in partitioned Poland. The conflict engaged all levels of society and arguably had profound repercussions on contemporary international relations and ultimately provoked a social and ideological paradigm shift in national events that went on to have a decisive influence on the subsequent development of Polish society.[3]

A confluence of factors rendered the uprising inevitable in early 1863. The Polish nobility and urban bourgeois circles longed for the semi-autonomous status they had enjoyed in Congress Poland before the previous insurgency, a generation earlier in 1830, and youth encouraged by the success of the Italian independence movement urgently desired the same outcome. Russia had been weakened by its Crimean adventure and had introduced a more liberal attitude in its internal politics which encouraged Poland's underground National Government to plan an organised strike against their Russian occupiers no earlier than the spring of 1863.[3] They had not reckoned with Aleksander Wielopolski, the pro-Russian archconservative head of the civil administration in the Russian partition. In an attempt to derail the Polish national movement, he brought forward to January the conscription of young Polish activists into the Imperial Russian Army for 20-year service. That decision is what triggered the January Uprising of 1863, the very outcome that Wielopolski had wanted to avoid.[4]

The rebellion by young Polish conscripts was soon joined by high-ranking Polish-Lithuanian officers and members of the political class. The insurrectionists, as yet ill-organised, were severely outnumbered and lacking sufficient foreign support and forced into hazardous guerrilla tactics. Reprisals were swift and ruthless. Public executions and deportations to Siberia eventually persuaded many Poles to abandon armed struggle. In addition, Tsar Alexander II hit the landed gentry hard and, as a result, the whole economy, with a sudden decision in 1864 for finally abolishing serfdom in Poland.[5] The ensuing breakup of estates and destitution of many peasants convinced educated Poles to turn instead to the idea of "organic work", economic and cultural self-improvement.[6]

Background

Russian army in Warsaw during martial law 1861

Despite the Russian Empire's loss of the Crimean War and weakened economic and political state, Alexander II warned in 1856 against further concessions with the words "forget any dreams". There were two prevailing streams of thought among the population of the Kingdom of Poland. One had patriotic stirrings within liberal-conservative usually landed and intellectual circles, centered around Andrzej Zamoyski and hoped for an orderly return to the constitutional status before 1830; they became characterized as the Whites. The alternative tendency, characterized as the Reds, represented a democratic movement uniting peasants, workers and some clergy. For both streams central to their dilemma was the peasant question. However, estate owners tended to favour the abolition of serfdom in exchange for compensation, but the democratic movement saw the overthrow of the Russian yoke as entirely dependent on an unconditional liberation of the peasantry.[3]

"The Battle" from the cycle of paintings "Polonia" dedicated to January Uprising of 1863 – Artur Grottger.

Just as the democrats organized the first religious and patriotic demonstrations in 1860, covert resistance groups began to form among educated youth. Blood was first to shed in Warsaw in February 1861, when the Russian Army attacked a demonstration in Castle Square on the anniversary of the Battle of Grochów. There were five fatalities. Fearing the spread of spontaneous unrest, Alexander II reluctantly agreed to accept a petition for a change in the system of governance. Ultimately, he agreed to the appointment of Aleksander Wielopolski to head a commission to look into Religious Observance and Public Education and announced the formation of a State Council and self-governance for towns and powiats. The concessions did not prevent further demonstrations. On 8 April, there were 200 killed and 500 wounded by Russian fire. Martial law was imposed in Warsaw, and brutally-repressive measures were taken against the organisers in Warsaw and Vilna by deporting them deep into Russia.

In Vilna alone, 116 demonstrations were held in 1861. That autumn, Russians had introduced a state of emergency in Vilna Governorate, Kovno Governorate and Grodno Governorate.[7]

The events led to a speedier consolidation of the resistance. Future leaders of the uprising gathered secretly in St. Petersburg, Warsaw, Vilna, Paris and London. Two bodies emerged from those consultations. By October 1861, the urban "Movement Committee" (Komitet Ruchu Miejski) had been formed, followed in June 1862, by the Central National Committee (CNC). Its leadership included Stefan Bobrowski, Jarosław Dąbrowski, Zygmunt Padlewski, Agaton Giller and Bronisław Szwarce. The body directed the creation of national structures that were intended to become a new secret Polish state. The CNC had not planned an uprising before the spring of 1863 at the earliest. However, Wielopolski's move to start conscription to the Russian Army in mid-January forced its hand to call the uprising prematurely on the night of 22–23 January 1863.

Call to arms in the Kingdom of Poland

Marian Langiewicz, military commander

The uprising broke out at a moment when general peace prevailed in Europe, and although there was vociferous support for the Poles, powers such as France, Britain and Austria were unwilling to disturb the international calm. The revolutionary leaders did not have sufficient means to arm and equip the groups of young men hiding in forests to escape Alexander Wielopolski's order of conscription into the Russian Army. Initially, about 10,000 men rallied around the revolutionary banner. The volunteers came chiefly from city working classes and minor clerks, but there was also a significant number of the younger sons of the poorer szlachta (nobility) and a number of priests of lower rank. Initially, the Russian government had at its disposal an army of 90,000 men, under Russian General Anders Edvard Ramsay, in Poland.

Battles of January Uprising in Congress Poland 1863–1864

It looked as if the rebellion might be crushed quickly. Undeterred, the CNC's provisional government issued a manifesto in which it declared "all sons of Poland are free and equal citizens without distinction of creed, condition or rank". It decreed that land cultivated by the peasants, whether on the basis of rent or service, should become their unconditional property, and compensation for it would be given to the landlords out of State general funds. The provisional government did its best to send supplies to the unarmed and scattered volunteers, who, in February, had fought in eighty bloody skirmishes with the Russians. Meanwhile, the CNC issued an appeal for assistance to the nations of Western Europe that was received everywhere with supportive sentiments from Norway to Portugal. The Confederate States of America sympathized with the Polish-Lithuanian rebels and viewed their struggles analogous.[8] Italian, French and Hungarian officers answered the call. Pope Pius IX was against the 1863 uprising of which he informed Wsyslaw Czartoryski.[9] The historian Jerzy Zdrada records that by the late spring and the early summer of 1863, there were 35,000 Poles under arms facing a Russian Army of 145,000 in the Polish Kingdom.

Uprising spreads to Lithuania

Battles of January Uprising in Lithuania, Latvia, Belarus and Ukraine

January Uprising's coat of arms, of a proposed Polish–Lithuanian–Ruthenian Commonwealth: White Eagle (Poland), Vytis (Lithuania) and Archangel Michael (Ruthenia)

On 1 February 1863, the uprising erupted in the former Grand Duchy of Lithuania. In April and May, it had spread to Dinaburg, Latvia and Witebsk, Belarus, to the Kiev Governorate, northern Ukraine, and to the Wolynian Voivodship. Volunteers, weapons and supplies began to flow in over the borders from Galicia, in the Austrian Partition, and from the Prussian Partition. Volunteers also arrived from Italy, Hungary, France and Russia itself. The greatest setback was that in spite of the liberation manifesto from the KCN, without prior ideological agitation, the peasantry could not be mobilized to participate in the struggle except in those regions that were dominated by Polish units, which saw a gradual enrollment into the uprising of agricultural workers.

Flag of the uprising

Secret State

The secret Polish state was directed by the Rada Narodowa (RN, National Council) to which the civil and military structures on the ground were accountable. It was a "virtual coalition government" formed of the Reds and the Whites and was led by Zygmunt Sierakowski, Antanas Mackevičius and Konstanty Kalinowski. The latter two supported their counterparts in Poland and adhered to common policies.

Its diplomatic corps was centered on Paris under the direction of Wladyslaw Czartoryski. The eruption of armed conflict in the former Commonwealth of Two Nations had surprised western European capitals, even if public opinion responded with sympathy for the rebel cause. It had dawned on Paris, London, Vienna and Saint Petersburg that the crisis could plausibly turn into an international war. For their part, Russian diplomats considered the uprising an internal matter, and European stability was generally predicated on the fate of Poland's aspiration.

International repercussions

Władysław Czartoryski

The uncovering of the existence of the Alvensleben Convention, signed on 8 February 1863 by Prussia and Russia in St. Petersburg, to suppress the Poles jointly, internationalized the uprising. It enabled Western powers to take the diplomatic initiative for their own ends. Napoleon III of France, already a sympathizer with Poland, was concerned to protect his border on the Rhine and turned his political guns on Prussia with a view to provoking a war with it. He was simultaneously seeking an alliance with Austria. The United Kingdom, on the other hand, sought to prevent a Franco-Prussian war and to block an Austrian alliance with France and so looked to scupper any rapprochement between France and Russia. Austria was competing with Prussia for the leadership of the German territories but rejected French approaches for an alliance and spurned any support of Napoleon III as acting against German interests. There was no discussion of military intervention on behalf of the Poles, despite Napoleon's support for the continuation of the insurgency.

Napoléon III, 1865

France, the United Kingdom and Austria agreed to a diplomatic intervention in defense of Polish rights and in April issued diplomatic notes that were intended to be no more than persuasive in tone.[10] The Polish RN hoped that the evolution of the insurgency would ultimately push western powers to adopt an armed intervention, which was the flavour of Polish diplomatic talks with those powers. The Polish line was that the establishment of continued peace in Europe was conditional on the return of an independent Polish state.[3]

With the threat of war averted, St. Petersburg left the door open for negotiations but was adamant in its rejection of any western rights to armed conflict. In June 1863, western powers iterated the conditions: an amnesty for the insurgents, the creation of a national representative structure, the development of autonomous concessions across the Kingdom, a recall of a conference of Congress of Vienna (1815) signatories and a ceasefire for its duration. That fell well below the expectations of the leadership of the uprising. While concerned by the threat of war, Alexander II felt secure enough with the support of his people to reject the proposals. Although France and Britain were insulted, they did not proceed with further interventions, which enabled Russia to extend and finally to break off negotiations in September 1863.

Outcome on the ground

Michał Elwiro Andriolli: the death of Ludwik Narbutt

Apart from the efforts of Sweden, diplomatic intervention by foreign powers on behalf of Poland was on the balance unhelpful in drawing attention away from the aim of Polish national unity towards its social divisions. It alienated Austria, which had maintained friendly neutrality towards Poland and not interfered with Polish activities in Galicia. It prejudiced public opinion among radical groups in Russia that until then had been friendly because they regarded the uprising as a social, rather than a national, insurgency. It also stirred the Russian government to ever more brutal suppression of hostilities and repression against its Polish participants, who had grown in strength.

In addition to the thousands who fell in battle, 128 men were hanged under the personal supervision of Mikhail Muravyov 'Muravyov the Hangman', and 9,423 men and women were exiled to Siberia, 2,500 men according to Russia's own estimates. The historian Norman Davies gives the number as 80,000 and noted it was the single largest deportation in Russian history.[11] Whole villages and towns were burned down[verification needed]. All economic and social activities were suspended, and the szlachta was ruined through the confiscation of property and exorbitant taxes. Such was the brutality of Russian troops that their actions were condemned throughout Europe.[12] Count Fyodor Berg, the newly appointed governor, Namiestnik of Poland, and the successor to Muravyov, employed harsh measures against the population and intensified systematic Russification in an effort to eradicate Polish traditions and culture.

Social and ethnic divisions laid bare

Insurgents of landed background constituted 60% of the uprising's participants (in Lithuania and Belarus around 50%, in Ukraine some 75%).[13] Records indicate that 95% of those punished for participation in the uprising were Catholic, which corresponded to the general proportion of participants.[14]

Despite outreach to Rus (Ruthenian) peasants by the Polish gentry (szlachta), comparatively few partook in the January Uprising. In some cases they assisted the Russian forces in catching rebels.[15] This has been cited as one of the primary reasons for the failure of the uprising.

During the first 24 hours of the uprising, armouries across the country were looted, and many Russian officials were executed on sight. On 2 February 1863, was the start of the first major military engagement of the uprising between Lithuanian peasants armed mostly with scythes and a squadron of Russian hussars outside Čysta Būda, near Marijampolė. It ended with the massacre of the unprepared peasants. While there was still hope of a short war, insurgent groups merged into larger formations and recruited new volunteers.

Evolution of events

      

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Find sources: "January Uprising" – news · newspapers · books · scholar · JSTOR (January 2020) (Learn how and when to remove this template message)

Zouaves of Death (żuawi śmierci), an 1863 Uprising unit organized by François Rochebrune. Drawing (published 1909) by K. Sariusz-Wolski, from a photograph. From left: Count Wojciech Komorowski, Colonel François Rochebrune, Lieutenant Tenente Bella

The provisional government had counted on an insurgency erupting in Russia, where wide discontent with the autocratic regime then seemed to be brewing. It also counted on the active support of Napoleon III, particularly after Prussia, expecting the inevitable armed conflict with France, had made overtures to Russia sealed in the Alvensleben Convention and offered assistance in suppressing the Polish uprising. Arrangements had already been completed on 14 February and the British Ambassador to Berlin, Sir Alexander Malet, informed his government that a Prussian military envoy

    has concluded a military convention with the Russian Government, according to which the two governments will reciprocally afford facilities to each other for the suppression of the insurrectionary movements which have lately taken place in Poland and Lithuania. The Prussian railways are also to be placed at the disposal of the Russian military authorities for the transportation of troops through Prussian territory from one part of the former Polish-Lithuanian commonwealth to another.

That step by Otto von Bismarck led to protests from several governments and incensed the several constituent nations of the former Commonwealth. The result was the transformation of a relatively insignificant uprising into another "national war" against Russia. Encouraged by promises made by Napoleon III, all provinces of the erstwhile Commonwealth, acting on the advice of Władysław Czartoryski, had taken to arms. Moreover, to Indicate their solidarity, all Commonwealth citizens holding office under the Russian government, including the Archbishop of Warsaw, Zymunt Feliński, resigned their positions and signed their allegiance to the newly constituted Government, which was composed of the five most prominent representatives of the Whites. The Reds, meanwhile, criticised the Polish National Government for being reactionary with its policy to incentivise Polish peasants to fight in the uprising. The government justified its inaction on the back of hopes of foreign military intervention promised by Napoleon III that never materialised.

Romuald Traugutt

It was only after Polish General Romuald Traugutt had taken matters into his own hands on 17 October 1863 to unite all classes under a single national banner that the struggle could be upheld. His restructuring in preparation for an offensive in spring 1864 was banking on a European-wide war.[16] On 27 December 1863, he enacted a decree of the former provisional government by granting peasants the land they worked. The land was to be provided by compensating the owners through state funds after the successful conclusion of the uprising. Traugutt called upon all Polish classes to rise against Russian oppression for the creation of a new Polish state. The response was moderate since the policy came too late. The Russian government had already begun working among peasants to grant them generous parcels of land for the asking. The peasants who had been bought off did not engage with Polish revolutionaries to any extent or provide them with support.

Fighting continued intermittently during the winter of 1863–1864 on the southern edge of the Kingdom, near the Galician border, from where assistance was still forthcoming. In late December in the Lublin Voivodeship, General Michał Heydenreich's unit was overwhelmed. The most determined resistance continued in the Świętokrzyskie Mountains, where General Józef Hauke-Bosak distinguished himself by taking several cities from the vastly superior Russian forces. However, he too succumbed to a crushing defeat on 21 February 1864 which presaged the end of the armed struggle. On 29 February, Austria imposed martial law, and on 2 March, the tsarist authorities brought in the abolition of serfdom in the Polish Kingdom. Both events neutralised Traugutt's concept of developing the uprising with a general mobilisation of the population in the Russian partition and reliance on assistance from Galicia. In April 1864, Napoleon III abandoned the Polish cause. Władysław Czartoryski wrote to Traugutt: "We are alone, and alone we shall remain".

Arrests eliminated key positions in the secret Polish state, and those who felt threatened sought refuge abroad. Traugutt was taken on the night of 10 April. After he and the last four members of the National Council, Antoni Jezioranski, Rafał Krajewski, Józef Toczyski and Roman Żuliński, had been apprehended by Russian troops, they were imprisoned and executed by hanging on 5 August at the Warsaw Citadel.[17][18] That marked the symbolic closure of the Uprising. Only Aleksander Waszkowski, the head of the Warsaw insurgency eluded the police till December 1864, but he too joined the list of "the lost" in February 1865. The war consisting of 650 battles and skirmishes with 25,000 Polish and other insurgents killed, had lasted 18 months. The insurgency persisted in Samogitia and Podlasie, where the Greek Catholic population, outraged and persecuted for their religious observance, "Kryaki" (those baptised into the Greek Orthodox Church), and others like the commander and priest Stanisław Brzóska, clung the longest to the revolutionary banner until the spring of 1865.

    Archbishop of Warsaw Feliński

    Archbishop of Warsaw Feliński

    Romuald Traugutt

    Romuald Traugutt

    Fr. Stanisław Brzóska (original photo portrait)

    Fr. Stanisław Brzóska (original photo portrait)

Decades of reprisals

Jacek Malczewski: Christmas Eve in Siberia

After the collapse of the uprising, harsh reprisals followed. According to official Russian information, 396 persons were executed and 18,672 were exiled to Siberia. Large numbers of men and women were sent to the interior of Russia and to the Caucasus, Urals and other remote areas. Altogether over 60,000 persons were imprisoned and subsequently exiled from Poland and consigned to distant regions of Russia.[19]

The abolition of serfdom in early 1864 was deliberately enacted in a move designed specifically to ruin the szlachta. The Russian government confiscated 1,660 estates in Poland and 1,794 in Lithuania. A 10% income tax was imposed on all estates as a war indemnity. Only in 1869 was the tax reduced to 5% on all incomes. It was the only time that peasants paid the market price for the redemption of the land (the average for the Russian Empire was 34% above the market price). All land taken from Polish peasants since 1864 was to be returned without rights of compensation. Former serfs could sell land only to other peasants, not to szlachta. Ninety percent of the ex-serfs in the empire who actually gained land after 1861 were confined to the eight western provinces. Along with Romania[clarification needed], Polish landless or domestic serfs were the only people who were eligible for land grants after serfdom had been abolished.

All of that was to punish the szlachta for its role in the uprisings of 1830 and 1863. In addition to the land granted to the peasants, the Russian government gave them a forest, pasture and other privileges, known under the name of servitutes, which proved to be a source of incessant irritation between the landowners and peasants over the ensuing decades and impeded economic development.[citation needed] The government took over all church estates and funds and abolished monasteries and convents. With the exception of religious instruction, all teaching in schools was ordered to be in Russian. That also became the official language of the country, to be used exclusively in all offices of central and local government. All traces of former Polish autonomy were removed, and the Kingdom was divided into ten provinces, each with an appointed Russian military governor under the control of the Governor-General in Warsaw. All former Polish government functionaries were deprived of their positions and replaced by Russian officials. According to George Kennan, "thousands of Polish insurgents" were transported to the "Nerchinsk silver-mining district... after the unsuccessful insurrection of 1863".[20]

Farewell to Europe, by Aleksander Sochaczewski. The artist himself is among the exiled here, near the obelisk, on the right.

Legacy

These measures of cultural eradication proved to be only partially effective. In 1905, 41 years after Russia crushed the uprising, the next generation of Poles rose once again in the Łódź insurrection, which too failed.

The January Uprising was one in a centuries-long series of Polish uprisings. In its aftermath, two new movements began to evolve that set the political agenda for the next century. One, led by the descendant of Lithuanians, Józef Piłsudski emerged as the Polish Socialist Party. The other, led by Roman Dmowski, became the National Democracy movement; sometimes referred to as Endecja, its roots lay in Catholic conservatism that sought national sovereignty, along with the reversal of forced Russification and Germanisation by the Polonisation of the partitioned territories in the former Commonwealth.[21]

Notable insurgents

Anna Pustowojtówna, alias "Michał Smok"

Last veterans of the January Uprising, photographed in the Second Polish Republic, c. 1930

    Francišak Bahuševič (1840–1900), Belarusian poet and writer, one of the founders of modern Belarusian literature

    Stanisław Brzóska (1832–1865), Polish priest and commander at the end of the insurrection.

    Saint Albert Chmielowski (1845–1916), founder of the Albertine Brothers and Sisters.

    Jarosław Dąbrowski (1836–1871), officer in the Russian Army, left-wing member of the "secret committee" of officers in St. Petersburg. He took over its leadership from Sierakowski. He died in Paris fighting for the Paris Commune.

    Wincenty Kalinowski (also known as Kastus) (1838–1864), was one of the leaders of Lithuanian national revival, a founder of Belarusian nationalism, and the leader of the January Uprising in the lands of the former Grand Duchy of Lithuania.

    Saint Raphael Kalinowski (1835–1907), born Joseph Kalinowski in Lithuania, resigned as a Captain from the Russian Army to become Minister of War for the Polish insurgents. He was arrested and sentenced to death by firing squad, but the sentence was then changed to 10 years in Siberia, including a grueling nine-month overland trek to get there.

    Apollo Korzeniowski (1820–1869), Polish playwright and father of Joseph Conrad.

    Marian Langiewicz (1827–1887), Military Commander of the uprising. He had an English wife, Suzanne, next to whom he was buried in Istanbul.

    Antanas Mackevičius (1828–1863), Lithuanian priest who organized some two hundred and fifty men, armed with hunting rifles and straightened scythes. After a defeat near Vilkija, he was captured and taken to the prison in Kaunas. After Mackevičius refused to betray other leaders of the uprising, he was hanged on 28 December 1863.

    Ludwik Mierosławski (1814–1878), veteran of the November Uprising and of the Greater Poland uprising (1846), general, strategist, writer and emigrant with wide foreign contacts.

    Władysław Niegolewski (1819–1885), was a liberal Polish politician and member of parliament, an insurgent in the Greater Poland Uprising of 1846 and 1848 and of the January 1863 Uprising, and a co-founder (1861) of the Central Economic Society and (1880) the People's Libraries Society.

    Francesco Nullo (1826–1863), Italian general who headed the Garibaldi Legion, and that carried huge symbolic value. Nullo died at the Battle of Krzykawka.

    Bolesław Prus (1847–1912), leading Polish writer of historical novels.

    Anna Henryka Pustowójtówna (1838–1881), alias "Michał Smok", adjutant to Marian Langiewicz. She was of Russian-Polish descent and an activist from 1861. She later took part in the Paris Commune and the Franco-Prussian War. Having had four children, she later died in Paris.

    François Rochebrune, (1830–1870), one of several French officers in the Uprising, he formed and led a Polish rebel unit called the Zouaves of Death and was promoted to General.

    Aleksander Sochaczewski (1843–1923), Polish painter.

    Romuald Traugutt (1826–1864), a Lieutenant colonel of German descent in the Russian Army, he was promoted general in the insurrection, was its leader for a spell and held the Foreign Affairs portfolio in the underground government. He was tortured and hanged by the Russians with several of his colleagues.

Influence on art and literature

Falling into the late romantic period, the events and figures of the uprising inspired many Polish painters, including Artur Grottger, Juliusz Kossak and Michał Elwiro Andriolli, and marked the delineation with the positivism that followed.

    The Polish poet Cyprian Norwid wrote a famous poem, "Chopin's Piano," describing the defenestration of the composer's piano during the January 1863 Uprising, when Russian soldiers maliciously threw the instrument out of a second-floor Warsaw apartment. Chopin had left Warsaw and Poland forever shortly before the outbreak of the November 1830 Uprising.

    Eliza Orzeszkowa, a leading Polish positivist writer and nominee for the Nobel Prize in Literature wrote Nad Niemnem a novel set in and around the city of Grodno after the 1863 January Uprising.

    Józef Jarzębowski has put together material from unknown people who lived through the uprising in his Mówią Ludzie Roku 1863: Antologia nieznanych i małoznanych Głosów Ludzi współczesnych. London: Veritas, 1963. ("Voices from 1863: An Anthology of unknown and little known contemporary Perspectives").

    In the initial draft of Twenty Thousand Leagues Under the Sea by Jules Verne but not in the published version, Captain Nemo was a Polish nobleman whose family had been brutally murdered by the Russians during the January 1863 Uprising. Since France had only recently signed an alliance with the Russian Empire, for the novel's final version, Verne's editor, Pierre-Jules Hetzel, made him obscure Nemo's motives.[citation needed]

    In Guy de Maupassant's novel Pierre et Jean, the protagonist Pierre has a friend, an old Polish chemist who is said to have come to France after the bloody events in his motherland. The story is believed to refer to the January Uprising.

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  Die vorliegen

Leo Trotzki (russisch Лев Троцкий Lew Trozki, wiss. Translite ration Lev Trockij; * 26. Oktoberjul./ 7. November 1879greg. als Lew Dawidowitsch Bronstein, russisch Лев Давидович Бронштейн , Transliteration Lev Davidovi č Bronštejn in Janowka, Gouvernement Cherson, Russisches Kaiserreich; † 21. August 1940 in Coyoacán, Mexiko) war ein russischer Revolutionär, kommunistischer Politiker und marxistischer Theoretiker. Trotzki, wie er sich ab 1902 nannte, war der maßgebliche Organisator der Revolution vom 25. Oktoberjul./ 7. November 1917greg., der die Bolschewiki unter der Führung von Wladimir Lenin an die Macht brachte. In der anschließend gebildeten Regierung war er Volkskommissar des Auswärtigen, für Kriegswesen, Ernährung, Transport und Verlagswesen. Als Kriegskommissar gründete er die Rote Armee, an deren Organisation und an deren Sieg im Russischen Bürgerkrieg er wesentlichen Anteil hatte. Nach Lenins Tod 1924 wurde Trotzki von Josef Stalin zunehmend entmachtet, 1929 ins Exil gezwungen und 1940 von einem sowjetischen Agenten in Mexiko ermordet. Nach ihm wurde die von der sowjetischen Parteilinie des Marxismus-Leninismus abweichende Richtung des Trotzkismus benannt. Inhaltsverzeichnis 1 Leben 1.1 Kindheit und Jugend 1.2 Erste Haft und Flucht 1.3 Vor dem Umsturz 1.4 Oktoberrevolution 1.5 Gründung der Roten Armee und Bürgerkrieg 1.6 Machtkampf mit Stalin 1.7 Exil 1.8 Ermordung 2 Rezeption 3 Nachwirken 4 Schriften 5 Literatur 6 Filme 7 Weblinks 8 Einzelnachweise Leben Kindheit und Jugend Lew Bronstein als 9-Jähriger, 1888 Lew Bronstein wurde als fünftes Kind jüdischer Kolonisten im damals zum russischen Staatsgebiet gehörenden Janowka im Kreis Jelisawetgrad, dem heutigen Bereslawka in der ukrainischen Oblast Kirowohrad geboren und besuchte die Realschule der Stadt Nikolajew (heutige ukrainische Namensform Mykolajiw). Sein Vater Dawid Leontjewitsch Bronstein war Landwirt, der es zu einigem Wohlstand gebracht hatte. Der Religion gleichgültig gegenüberstehend, bewirtschaftete er mit Hilfe von Lohnarbeitern den größeren Hof namens Janowka in der Nähe der Kleinstadt Bobrynez. Seine Mutter Anna kam aus einer kleinbürgerlichen Familie und war eine gebildete, in der Stadt aufgewachsene Frau, die der jüdisch-orthodoxen Religion anhing. Seine Schwester Olga schloss sich später auch den Revolutionären an. Sie heiratete Lew Kamenew, einen einflussreichen Parteitheoretiker der Bolschewiki und eine der Hauptfiguren des thermidorianischen Triumvirates gegen die erste so genannte Linke Opposition der Zwanziger Jahre, schloss sich aber wenig später doch mit Sinowjew der Vereinigten Opposition gegen Stalin an und wurde später hingerichtet. Die Jahre im provinziellen Janowka erlebte der spätere Volkskommissar weder als unbeschwert noch als bedrückend. Er berichtete in seiner Autobiografie Mein Leben später von einer „biederen Kleinbürgerkindheit, farblos in der Schattierung, beschränkt in der Moral, nicht von Kälte und Not, aber auch nicht von Liebe, Überfluss und Freiheit geprägt“. 1886 besuchte Bronstein den Cheder, eine religiös geprägte Grundschule, in der benachbarten Kolonie Gromokley, wo er Russisch, Arithmetik und Bibel-Hebräisch erlernte. Ab 1888 absolvierte Bronstein die deutsch-lutherische Realschule zum Heiligen Paulus in der Hafenstadt Odessa. Dort lernte er das ländliche, orthodoxe Judentum, wie es seine Familie praktizierte, aus der aufgeklärten Sicht des Bürgertums zu sehen und begann, sich für ein weltoffenes, assimiliertes Judentum einzusetzen. Neun Jahre später bestand er das Abitur in Nikolajew als Bester seines Jahrgangs. Lew Bronstein, 1897 Schon ein Jahr zuvor hatte der 17-Jährige begonnen, sich politisch von einem radikaldemokratischen Oppositionellen zum Volkstümler zu entwickeln. Das Volkstümlertum gehörte mit dem Marxismus zu den beiden populärsten oppositionellen Richtungen jener Tage. Er trat einem Diskussionszirkel junger Oppositioneller bei, in dem er die Positionen der Volkstümler vertrat. Seine Kontrahentin und spätere erste Frau war die sieben Jahre ältere Alexandra Sokolowskaja, die sich als Marxistin verstand und ihn letztlich von der marxistischen Theorie überzeugte. Als Bronstein begann, sich politisch zu betätigten, stellten seine Eltern ihre Unterhaltszahlungen ein. Im Jahre 1897 war Bronstein nunmehr als Sozialist maßgeblich an der Gründung des sozialdemokratischen Südrussischen Arbeiterbundes beteiligt. Er fungierte in dieser Organisation als Propagandist und Verbindungsmann zwischen den Gruppen in Nikolajew und Odessa. Erste Haft und Flucht Polizeifoto von Bronstein nach seiner Festnahme 1898 Anfang 1898 nahm die zaristische Polizei Bronstein im Rahmen von Massenverhaftungen, deren Anlass der Verrat des Tischlers Nesterenko war, fest und ließ ihn in den Gefängnissen von Nikolajew, Cherson und Odessa einsitzen. 1899 wurde er zur Verbannung nach Sibirien verurteilt, wo er seiner Fundamentalkritik am Sankt Petersburger Regime mit intensiven Studien des dialektischen und historischen Materialismus sowie der marxistischen Weltanschauung ein theoretisches Fundament gab. Im Moskauer Überführungsgefängnis Butyrka heiratete der Revolutionär 1900 Alexandra Sokolowskaja, die ihn wenig später in die Verbannung nach Irkutsk begleitete. Im folgenden Jahr wurde ihre erste Tochter, Sinaida, geboren und 1902 die zweite Tochter Nina (gest. 1928).[1] Im Jahre 1902 verließ er wegen seiner revolutionären Arbeit seine Frau und die beiden kleinen Töchter und floh aus der Verbannung. Um die Flucht zu bewerkstelligen, legte er sich einen gefälschten Pass auf den Namen Trotzki zu, womit er sich, seinem Hang zur Ironie folgend, nach dem Oberaufseher des Gefängnisses in Odessa benannte. Diesen Namen verwendete er danach bis zum Ende seines Lebens. Vor dem Umsturz Wenig später, im Herbst 1902, kam Leo Trotzki, der Einladung von Wladimir Lenin folgend, nach London und wohnte mit ihm zusammen. In der Emigration übernahm er die Rolle des leitenden Redakteurs der sozialdemokratischen Zeitung Iskra (Der Funke), eine Tätigkeit, die ihm den Spitznamen „Leninscher Knüppel“ einbrachte; nach der Spaltung der russischen Sozialdemokratie führte er diese Arbeit jedoch nicht mehr fort. Bald schon trat er der Sozialdemokratischen Arbeiterpartei Russlands (SDAPR) Georgi Plechanows bei und vertrat auf dem II. Parteitag der SDAPR in der britischen Hauptstadt den sogenannten Sibirischen Bund. In dieser Zeit lernte Trotzki auch Alexander Parvus, eigentlich Israil Lasarewitsch Helphand, kennen, der ebenfalls aus einem jüdischen Stetl in der Nähe von Odessa stammte und der in der deutschen SPD sein politisches Betätigungsfeld gefunden hatte. Der ältere Parvus prägte den jungen Trotzki sehr stark. Dessen „Theorie der permanenten Revolution“ basiert zum Teil auf einer ähnlichen Konzeption von Parvus. 1902 hielt sich Trotzki zeitweise in Paris auf, wo er die Kunstgeschichtsstudentin Natalja Sedowa kennenlernte. Sie blieb bis zu seinem Lebensende an seiner Seite. Auf dem zweiten Parteitag der SDAPR (1903) kam es zur Spaltung der Partei über die Frage, wer als Parteimitglied betrachtet werden könne. Opponenten bei dieser Auseinandersetzung waren einerseits Lenin, nach dessen Meinung nur Personen Parteimitglied sein konnten, die sich persönlich engagierten, und andererseits Martow, der lediglich die Unterstützung der Partei als Grundlage einer Parteimitgliedschaft ansah. Bei der folgenden Abstimmung siegten die Anhänger Lenins, die in der Folge Bolschewiki (deutsch: Mehrheitler) genannt wurden; ihnen standen die Menschewiki (deutsch: Minderheitler) entgegen. Trotzki versuchte einerseits, zwischen den Parteifraktionen zu vermitteln, andererseits schwenkte er stark in die Nähe der Menschewiki ein. Er verfasste Schriften, in denen er Lenin Machtgier als Grundlage seiner Politik unterstellte und ihn einen „Diktatorenkandidaten“ oder auch „Maximilien de Lénine“ nannte (als kritische Anspielung auf den französischen Revolutionär Maximilien de Robespierre). Das Verhältnis der beiden künftigen Revolutionsführer war durch diese Polemiken lange Zeit belastet. In späteren Schriften nahm Trotzki seine menschewistischen Positionen zurück. Von August 1904 an wohnte Trotzki ein halbes Jahr lang in München. Im selben Jahr brach er mit den Menschewiki und postulierte in der „Theorie der permanenten Revolution“, dass das seiner Ansicht nach gänzlich zaristisch diskreditierte russische Bürgertum einen Umsturz nach dem Muster der Französischen Revolution nicht wagen werde. Vielmehr werde die Arbeiterklasse, die allerdings noch sehr klein sei, eine bedeutende Rolle im Bündnis mit den ärmsten Schichten der Bauernschaft und den Landproletariern bei der Errichtung der „Diktatur des Proletariats, gestützt auf den Bauernkrieg“ spielen. Dies stellt eine entscheidende Weiterentwicklung des Marxismus dar, da sich Marx in einem industriell rückständigen Land (90 % der Bevölkerung waren Bauern) keine proletarische Revolution vorstellte. Er war der Ansicht, dass erst nach einem weiteren Fortschreiten des Kapitalismus die Gesellschaft für einen kommunistischen Umsturz bereit wäre. Während der Revolution von 1905 kehrte er nach dem St. Petersburger Aufstand im Oktober 1905 nach Russland zurück, wo er zusammen mit Parvus Mitglied des St. Petersburger „Sowjets (Rat) der Arbeiterdeputierten“ wurde. Trotzki übernahm den Vorsitz des Rates. Nach seiner Verhaftung wurde Parvus sein Nachfolger. In der Verbannung verfasste Trotzki die Schrift Bilanz und Ausblick – Russland in der Revolution. 1906 wurde sein drittes Kind geboren, der Sohn Lew. Zwei Jahre später in Wien folgte der Sohn Sergej. Die Mutter beider Kinder war Natalja Sedowa. Die von Trotzki beeinflusste Massenbewegung wurde zerschlagen. Trotzki, der inzwischen zum Vorsitzenden des Sowjets aufgestiegen war und sich in den Dezemberaufständen engagiert hatte, wurde nach einem Schauprozess ein zweites Mal zu lebenslanger Verbannung verurteilt. Seine Strafe sollte er im Gouvernement Tobolsk antreten. Er floh bereits beim Transport und entkam, ebenso wie Parvus, in das habsburgische Wien. Auf dem Parteitag von 1907, abermals in London, schloss sich Trotzki weder den Bolschewiki noch den Menschewiki an, sondern stand einer von den Bolschewiki so genannten zentristischen Fraktion vor. Ab 1908 gab er zusammen mit Adolf Joffe eine Zeitung mit Namen Prawda (deutsch: „Wahrheit“ oder „Gerechtigkeit“) heraus, nicht zu verwechseln mit der gleichnamigen von Lenin herausgegebenen Zeitung, die ab 1912 erschien. In jener Zeit versuchte vor allem Kamenew, Trotzki von der bolschewistischen Fraktion und den Positionen Lenins zu überzeugen; Trotzki blieb allerdings Kritiker Lenins, ebenso wie Lenin die Positionen Trotzkis verurteilte. Trotzki führte nun das Leben eines rastlosen Emigranten; sammelte erste militärische Erfahrungen auf dem Balkan und lieferte zeitweise als Kriegsberichterstatter Beiträge für die Zeitung Kijewskaja mysl unter dem Titel Die Balkankriege. Es kam zum Bruch zwischen Trotzki und Parvus. Letzterer vertrat ein anderes Konzept der „Theorie der permanenten Revolution“. Von 1910 bis 1914 schloss sich Parvus den Jungtürken an und beteiligte sich an der Revolution gegen das Osmanische Reich in Konstantinopel. Während des Ersten Weltkrieges arbeitete er mit amtlichen deutschen Stellen zusammen. Leo Trotzki mit seiner Tochter Nina (1915) Nach Ausbruch des Ersten Weltkrieges floh Trotzki vor der in Österreich drohenden Verhaftung in die neutrale Schweiz und zog im November 1914 nach Paris, um für Kijewskaja mysl über den Krieg zu berichten. Ab Januar 1915 gab er dort die Zeitung Nasche Slowo heraus, die als Organ der internationalistischen Menschewiki fungierte. Auf der Zimmerwalder Konferenz 1915 gehörte er mit Lenin, dem er sich stetig annäherte, zu den Unterzeichnern des von ihm verfassten Internationalen Sozialistischen Antikriegsmanifestes. Wegen seiner gegen den Krieg gerichteten Agitation wurde er, nachdem es unter russischen Truppen in Frankreich zu einer Meuterei gekommen war, im September 1916 von den französischen Behörden nach Spanien abgeschoben. Dort wurde er verhaftet und im Dezember 1916 nach New York deportiert. Oktoberrevolution → Hauptartikel: Oktoberrevolution In New York, wo er mit seiner zweiten Ehefrau Natalja Sedowa und seinen zwei Söhnen ein Apartment bewohnte, arbeitete Trotzki für die russisch- bzw. jiddischsprachigen Zeitungen Novy Mir und Der Forwerts. Im März 1917 erhielt er die Nachricht von der russischen Februarrevolution, durch welche die bürgerliche Provisorische Regierung unter dem Fürsten Lwow und seinem sozialdemokratischen Kriegsminister Kerenski an die Macht kam. Auf dem Weg nach Russland wurde Trotzki am 3. April 1917 in Halifax, Nova Scotia, Kanada, festgenommen und in ein Internierungslager für deutsche Kriegsgefangene gebracht. Allerdings setzte der Petrograder Sowjet – 1914 war St. Petersburg in Petrograd umbenannt worden – die Provisorische Regierung unter Druck, sich für Trotzki einzusetzen. Nach seiner Freilassung kam er im Mai 1917 in Petrograd an. Dort schloss er sich erneut einer sogenannten zentristischen Arbeiterpartei an, diesmal der Überregionalen Organisation vereinigter Sozialdemokraten (Meschrajonzy), die das Ziel hatte, die Bolschewiki und Menschewiki auszusöhnen. Nach einigen Auseinandersetzungen schloss sich die Überregionale Organisation unter der Führung Trotzkis, den in der theoretischen Auseinandersetzung allein noch die Frage einer sozialdemokratischen Massenpartei von Lenin trennte, den Bolschewiki an. Trotzki selbst wurde auf dem VI. Parteitag der Bolschewiki in absentia (er war nach dem Juliaufstand verhaftet worden) in die Partei aufgenommen und erhielt einen Platz im Zentralkomitee. Nachdem die Bolschewiki eine Mehrheit im Petrograder Sowjet erreicht hatten, wurde Trotzki im September 1917 zu dessen Vorsitzenden gewählt und organisierte in dieser Funktion die „Kampfverbände der Roten Garde“. Damit wurde er rasch zu einem der wichtigsten Männer in der Partei. Als am 10. Oktober 1917 das Zentralkomitee der Partei den Entschluss zu einem bewaffneten Aufstand gegen die schwache Regierung von Alexander Kerenski fasste, stimmte Trotzki mit der Mehrheit seiner Genossen dafür. Die später von der stalinistischen Propaganda verbreitete Behauptung, Trotzki habe sich gegen die Revolution ausgesprochen, ist nachweislich falsch. Der Winterpalast Unter seiner Federführung wurde am 16. Oktober 1917 das Militärrevolutionäre Komitee des Petrograder Sowjets gegründet. Dieses Komitee setzte den Befehl der provisorischen Regierung, zwei Drittel der Petrograder Stadtgarnison an die Front des Ersten Weltkriegs zu beordern, außer Kraft. Dies war der Beginn der Revolte des Militärrevolutionären Komitees im Smolny-Institut, wo Boten mit Nachrichten aus den verschiedenen Teilen der Stadt eintrafen, um über die Ereignisse und Erfolge der Aufständischen zu informieren. Nach der Übernahme von Bahnhöfen, Postämtern, Telegrafenamt, Ministerien und der Staatsbank sowie dem Sturm auf den Winterpalast etablierte sich am 26. Oktober um 5 Uhr morgens der am Vortag einberufene II. Gesamtrussische Kongress der Arbeiter- und Soldatendeputierten eine Koalitionsregierung aus Bolschewiki und linken Sozialrevolutionären unter dem Namen Sowjet der Volkskommissare. Gleich danach wurden die Dekrete Über den Frieden und Über den Grund und Boden verabschiedet. Die Parteien der relativ einflusslosen Duma verweigerten, mit Ausnahme der bolschewistischen Fraktion, sowohl den Entscheidungen des Kongresses als auch der Regierung die Anerkennung. Leo Trotzki 1918 Nachdem die Bolschewiki die Macht erlangt hatten, wurde Trotzki zum Volkskommissar (russisch: народный комиссар Narodnyj Kommissar, kurz Narkom) für äußere Angelegenheiten ernannt. Seine Hauptaufgabe sah er darin, Frieden mit dem Deutschen Reich und dessen Verbündeten (wie Österreich-Ungarn) zu schließen. Er sorgte für die Ausrufung eines Waffenstillstands zwischen Sowjetrussland und den Mittelmächten und leitete die Friedensverhandlungen von Brest-Litowsk. Er versuchte aufgrund der schwachen Position des revolutionären Russlands und der offen imperialistischen Position der (deutschen) Obersten Heeresleitung in der Frage der Gebietszugehörigkeit der Ukraine solange wie möglich eine Übereinkunft hinauszuzögern. Trotzkis Verhandlungspartner auf deutscher Seite war General Ludendorff, der dessen Hinhaltungstaktik durchschaute. Am 18. Februar 1918 überschritten deutsche Truppen die russisch-deutsche Frontlinie, die seit dem Waffenstillstand vom 15. Dezember 1917 Bestand hatte, und besetzten die Ukraine, die sich bereits im Januar 1918 für unabhängig erklärt hatte und die den unter Nahrungsmittelknappheit leidenden Mittelmächten als „Kornkammer“ dienen sollte ( → Ukrajinska Narodna Respublika). Aufgrund der militärischen Überlegenheit der Mittelmächte musste Sowjetrussland am 3. März 1918 den sehr nachteiligen Friedensvertrag von Brest-Litows k schließen, der den Verlust der Ukraine und weiterer Gebiete für Sowjetrussland zur Folge hatte. Das Verhalten Trotzkis während der Verhandlungen war innerhalb der Regierung und des Zentralkomitees der Kommunistischen Partei stark umstritten. Während es auf der einen Seite eine Gruppierung um Karl Radek und Nikolai Bucharin gab, die die unbedingte Fortführung des „revolutionären Krieges“ und die Expansion des Sowjetgebietes forderte, ohne die verzweifelte Lage der eigenen Truppen zu berücksichtigen, wurde von einer Minderheit um Lenin eine riskante Verschleppungstaktik in der Hoffnung auf eine baldige proletarische Revolution in Deutschland und Österreich-Ungarn favorisiert. Trotzki selbst wollte laut seiner Autobiografie eine Kapitulation erst auf eine erneute Offensive von Seiten der deutschen Truppen hin unterzeichnen, enthielt sich aber auf der entscheidenden Abstimmung im ZK, um Lenin die Mehrheit zu sichern, und trat freiwillig aus diplomatisch-taktischen Gründen vom Amt des Volkskommissars für äußere Angelegenheiten zurück. Gründung der Roten Armee und Bürgerkrieg Nach dem Friedensvertrag von Brest-Litowsk, den Trotzki als persönliche Niederlage betrachtete, setzte er sich für den Sieg der Bolschewiki im Russischen Bürgerkrieg ein, bei dem sich die sowjetischen „Roten“ und die zaristisch-bürgerlichen „Weißen“ gegenüberstanden. Trotzki wurde am 14. März 1918 zum Volkskommissar für das Kriegswesen ernannt und begann mit dem Aufbau der Roten Arbeiter- und Bauernarmee, kurz Roten Armee.[2] Trotzki trug mit seinem energischen und gnadenlosen Vorgehen entscheidend zum militärischen Sieg der Bolschewiki bei. Er organisierte die Umwandlung der bisher zerstreuten, desorganisierten Roten Garden in ein straff geführtes Territorialheer; unter anderem ließ er wieder militärische Ränge, Abzeichen und die Todesstrafe in der Armee einführen. Vom August 1918 bis ins Jahr 1920 mischte sich Trotzki an Bord seines Panzerzuges direkt in die Geschicke der Roten Armee ein. Im August 1918 befahl er darüber hinaus, dass bei einem aus Sicht des Oberkommandos unnötigen Rückzug einer Einheit zuerst der Kommissar und dann der militärische Befehlshaber sofort hinzurichten seien. Das Kommandopersonal wurde bis dahin von den Soldaten gewählt. Dieser demokratische Ansatz behinderte aber die Umwandlung in eine neue, zentral geführte Armee. Trotzki schaffte die demokratischen Strukturen daher großteils ab, entließ die konservativen Kosaken aus der Kavallerie und verband die Verteidigung der neuen Regierung mit dem Freiheitskampf verschiedener unterdrückter Nationalitäten des ehemaligen Zarenreiches. Bereits im September 1918 zeigte die Rückeroberung der Stadt Kasan, dass Trotzkis Maßnahmen erfolgreich waren. Unter Exilrussen hieß es dazu, die Bolschewiki kämpften „mit lettischen Stiefeln und chinesischem Opium“, denn aus Mangel an erfahrenen Offizieren förderte Trotzki den Eintritt von Offizieren der alten zaristischen Armee in die Rote Armee. Bis Kriegsende dienten rund 75.000 im roten Offizierskorps. Manche meldeten sich freiwillig, andere wurden eingezogen. Trotzki befahl, zu ihrer Kontrolle ihre Familien in Sippenhaft zu nehmen, sofern die Offiziere zu den Weißen überlaufen sollten.[3] Die offiziell als „Militärspezialisten“ bezeichneten Offiziere wurden zusätzlich der Kontrolle durch loyale Aufsichtspersonen, so genannte Politkommissare, unterworfen. Gerade dieser Aspekt führte zu harscher Kritik innerhalb der Partei; besonders Josef Stalin, der in Zarizyn, dem späteren Stalin- und heutigen Wolgograd, Kommissar der Roten Armee war, beklagte sich über die Einsetzung des Generals Sytin bei der Verteidigung der Stadt. Er und die übrigen Opponenten der neuen Militärorganisation fanden aber aufgrund der militärischen Erfolge Trotzkis kein Gehör bei Lenin. Am 6. April übernahm Trotzki noch zusätzlich das Ressort für Marineangelegenheiten. Die Regierung war von Petrograd nach Moskau umgezogen. 1919 benannten sich die Bolschewiken in Kommunistische Partei Russlands (Bolschewiki) (KPR (B)) um, die ab 1925 Kommunistische Partei der Sowjetunion (Bolschewiki) (KPdSU (B)) hieß. Unangefochtener Führer war Wladimir Lenin, der sich mit Trotzki inzwischen ausgesöhnt hatte. Zunächst standen die Bolschewiki unter großem Druck. Das Territorium der Sowjets wurde 1918 zeitweise durch die sogenannten Weißen Armeen fast auf das Gebiet der alten Moskauer Fürstentümer reduziert. Die Versorgungslage der Städte war schlecht. Zusätzlich griffen die Siegermächte des Ersten Weltkriegs durch die Entsendung eigener Truppenkontingente in die Kämpfe zugunsten der oppositionellen Weißen Armeen ein. So befanden sich zwischen 1918 und 1922 japanische, US-amerikanische, britische, italienische und französische Truppenkontingente auf russischem Gebiet. Der Roten Armee, die aus den Roten Garden hervorgegangen war, stand jedoch ein Gegner gegenüber, der über keine einheitliche Führung verfügte und widersprüchliche Zielsetzungen verfolgte. 1919 führte Trotzki den Kampf gegen den Anarchisten Nestor Machno und dessen Bewegung, die Machnowschtschina, an.[4] Bis 1920 gelang es der Roten Armee in einem sehr verlustreichen Kampf, die Weißen Truppen bis in den Osten des russischen Reiches zurückzudrängen. Im Februar desselben Jahres erlitt die Weiße Armee eine schwere Niederlage in Sibirien. Trotzki proklamierte nun den Krieg gegen Polen und dessen ukrainische Verbündeten und machte ihn zur Chefsache im Kriegskommissariat. Durch das sogenannte „Wunder an der Weichsel“ Mitte August wurde die Rote Armee allerdings empfindlich getroffen und vernichtend geschlagen. Die Offensive gegen Polen musste abgebrochen werden. Im Vertrag von Riga erwarben die Sowjets aber Weißrussland und die Ukraine. Im Mai 1921 fiel die Krim, die letzte Festung der Weißen Armee. Bis zum Ende des Russischen Bürgerkriegs 1922 eroberten die Roten Truppen unter Trotzkis Führung Aserbaidschan, Armenien und Georgien, deren Regierungen, teils menschewistisch, teils nationalistisch geprägt, die staatliche Unabhängigkeit angestrebt hatten. In Georgien fand im August ein vergeblicher Aufstand gegen die Rote Armee statt, die in den neu eroberten Ländern zum Teil als Befreier, zum Teil aber als Besatzungsmacht wahrgenommen wurde. Der Aufstand der Kronstädter Matrosen 1921 – sie forderten sofortige gleiche und geheime Neuwahlen der Sowjets, Rede- und Pressefreiheit für alle anarchistischen und linkssozialistischen Parteien, Versammlungsfreiheit, freie Gewerkschaften und eine gerechtere Verteilung von Brot[5] – wurde von der Roten Armee unter Trotzkis Führung „mit erbarmungsloser Härte und Massenerschießungen“ unterdrückt.[6] Trotzki verteidigte auch energisch die Pressezensur.[7] Auch für die blutige Niederschlagung von Bauernaufständen mit Tausenden Toten, z. B. im Gebiet der heutigen Ukraine, die sich vor allem gegen die Kornkonfiszierungen richteten, wurde Trotzki als oberster Heeresführer verantwortlich gemacht. In den 1930er Jahren kritisierten die Kommunisten Max Eastman, Boris Souvarine, Ante Ciliga und Victor Serge Trotzkis Rolle bei der brutalen Niederschlagung, die sie als Beginn des Stalinismus und als Vorläufer des Großen Terrors ihrer Gegenwart ansahen.[8] Trotzki rechtfertigte sein Vorgehen: „Ich weiß nicht […], ob es unschuldige Opfer (in Kronstadt) gab […]. Ich bin bereit, zuzugeben, dass ein Bürgerkrieg keine Schule für menschliches Verhalten ist. Idealisten und Pazifisten haben der Revolution immer Exzesse vorgeworfen. Die Schwierigkeit der Sache liegt darin, dass die Ausschreitungen der eigentlichen Natur der Revolution entspringen, die selbst ein Exzess der Geschichte ist. Mögen jene, die dazu Lust haben (in ihren armseligen journalistischen Artikeln), die Revolution aus diesem Grund verwerfen. Ich verwerfe sie nicht.“[9] Nach 1921 wurde der Kriegskommunismus allerdings von der Neuen Ökonomischen Politik abgelöst. Machtkampf mit Stalin Trotzki (rechts) mit seinem innerparteilichen Unterstützer Christian Rakowski, ca. 1924 Trotzki (4. v. l.) zusammen mit Stalin (3. v. r.) als einer der Sargträger bei der Beerdigung von Felix Dserschinski Nach der Gründung der Sowjetunion Ende Dezember 1922 begann Trotzki, die entstehende Bürokratie, den Totalitarismus der Bolschewiki und den aufkommenden russischen Nationalismus zu kritisieren. Damit stieß er sowohl auf Zustimmung als auch auf Ablehnung innerhalb der Partei. Ab 1924 richtete er seine Kritik hauptsächlich gegen Josef Stalin. Lenin äußerte Vorbehalte wegen Trotzkis „übermäßigen Selbstvertrauens“ und seiner „übermäßigen Leidenschaft für rein administrative Maßnahmen“, sagte aber auch, dass Trotzki sich „durch hervorragende Fähigkeiten“ auszeichne und „persönlich wohl der fähigste Mann im gegenwärtigen ZK“ sei.[10] Nach dem Verlesen des politischen Testaments, in dem Lenin Stalin als zu „grob“ bezeichnete, bot Stalin seinen Rücktritt an, doch der Rücktritt wurde mit großer Mehrheit abgelehnt. In der Folge begann Stalin gemeinsam mit Sinowjew und Kamenew, Trotzki endgültig von der Macht zu verdrängen. Dazu gehörte, dass Lenins Testament und die Briefe in der Parteipresse und später in den Werkausgaben nicht gedruckt wurden. Lediglich Trotzki und diejenigen, die besser beurteilt worden waren als Stalin, zitierten Lenins letzten Willen in ihren Schriften. Erst ab 1956, dem Beginn der Entstalinisierung, waren diese Schriftstücke parteiintern und öffentlich zugänglich. Im Oktober 1923 griff Trotzki das bereits von Stalin dominierte Zentralkomitee an, worauf eine heftige Gegenreaktion erfolgte. Von diesem Zeitpunkt an verlor er auf Betreiben Stalins immer mehr an Einfluss innerhalb der Partei. In dieser Zeit arbeitete Trotzki auch wieder theoretisch und veröffentlichte 1923 sein Werk Literatur und Revolution. Darin prophezeite er, dass der gesellschaftliche Aufbau der Sowjetunion die physisch-psychische Selbsterziehung des Einzelnen und vor allem die Künste einen „neuen Menschen“ schaffen würden: „Der Mensch wird unvergleichlich viel stärker, klüger und feiner; sein Körper wird harmonischer, seine Bewegungen werden rhythmischer und seine Stimme wird musikalischer werden. […] Der durchschnittliche Menschentyp wird sich bis zum Niveau von Aristoteles, Goethe und Marx erheben. Und über dieser Gebirgskette werden neue Gipfel aufragen.“[11] Nach dem Tode Lenins 1924 brach schließlich ein offener Machtkampf zwischen Trotzki und Stalin über die Zukunft der Sowjetunion und die theoretischen Grundlagen für den angestrebten Kommunismus aus. Stalin begann, den sogenannten „Sozialismus in einem Land“ mit Gewalt durchzusetzen, während Trotzki weder den Apparat der Partei noch die Bevölkerung mehrheitlich an sich binden konnte. Stalin festigte mit seinen von Amts wegen gegebenen Möglichkeiten bürokratischer und militärischer Art die Diktatur in der Sowjetunion. Trotzki vertrat das Erbe des Marxismus in anderer Interpretation und berief sich auf den Imperativ der „Weltrevolution“ und die „Arbeiterdemokratie“, gemäß der Parole aus dem Kommunistischen Manifest „Proletarier aller Länder, vereinigt euch!“. Er versuchte, sich gegen alle von ihm so genannten „reaktionären Angriffe“ durch Stalin zu verteidigen. Sein Ziel war es, der internationalen Arbeiterschaft zum Sieg zu verhelfen. Er ging wie Lenin davon aus, dass nur eine weltweite Revolution den Sieg des Sozialismus ermöglichen könne. Dies entsprach nicht allein der bisherigen marxistischen Tradition, sondern auch der eigenen Theorie der permanenten Revolution, die er nach der Revolution von 1905 in der Schrift Ergebnisse und Perspektiven formuliert hatte und 1929 noch einmal in polemischer Form darstellte, da ihm die Stalinisten zunehmend fremde Ansichten unter diesem Namen unterschoben und versuchten, diese Theorie als „menschewistische Abweichung“ zu brandmarken. Sie besagte im Wesentlichen, dass die Revolution in rückständigen Ländern eine bürgerlich-demokratische und eine proletarische Phase ohne Unterbrechung durchlaufen müsse, zum erfolgreichen sozialistischen Aufbau der Sieg der Revolution wenigstens in den fortgeschrittensten Ländern notwendig wäre und sich schließlich auch in Arbeiterstaaten politische, kulturelle und wirtschaftliche Revolutionen vollziehen könnten und müssten, um zum Sozialismus überzugehen. Nachdem Stalin immer mächtiger geworden war, verlor Trotzki 1925 sein Amt als Kriegskommissar und musste in den nächsten Jahren verschiedene untergeordnete Tätigkeiten im Staatsdienst ausüben. Es folgte die Kennzeichnung von „Trotzkismus“ als „Abweichlertum“ und „Verrat“. Alle Schriften und Werke des „jüdischen Verschwörers“ und „Lakaien des Faschismus“ galten als Ketzerei. Stalin ließ Trotzkis Namen und Fotos aus allen offiziellen Dokumenten und Texten tilgen. Außerdem leugnete er dessen Rolle beim Oktoberaufstand und im Bürgerkrieg. 1926 wurde Trotzki aus dem Politbüro und im November 1927 auch aus der KPdSU ausgeschlossen. Auf dem XV. Parteitag der KPdSU (B) im Dezember 1927 hatte die Opposition keinen stimmberechtigten Delegierten mehr. Trotzki wurde mit anderen Oppositionellen am 17. Januar 1928 nach Alma-Ata (im heutigen Kasachstan) verbannt. Von dort wurde er in die Türkei ausgewiesen. Exil Das Haus auf der Insel Büyükada bei Istanbul, in dem Trotzki wohnte Der türkische Staat unter Atatürk gewährte Trotzki 1929 politisches Asyl. Er verbrachte die Jahre zwischen 1929 und 1933 auf der Insel Büyükada in der Türkei.[12] Trotzki war gezwungen zu schreiben, um seinen Lebensunterhalt zu verdienen. Die Ausgaben dafür waren hoch, weil er immer Leibwächter zu seinem Schutz brauchte und weil seine weitere politische Arbeit finanziert werden sollte. Daher war ihm ein Angebot des New Yorker Verlages „Charles Scribner’s Sons“ recht, das Schreiben von Trotzkis Autobiographie zu finanzieren und sie zu veröffentlichen. Sie erschien 1929 und trug in der deutschen Version den Titel Mein Leben. Versuch einer Autobiographie. Der Erfolg ermunterte Trotzki, ein Angebot des New Yorker Verlags Simon & Schuster anzunehmen und eine Geschichte der Russischen Revolution zu verfassen, die 1932 erschien.[13] In der Zeit ab 1930 setzte sich Trotzki intensiv mit dem deutschen Nationalsozialismus auseinander, den er als vom Kleinbürgertum getragene, autonom von der Bourgeoisie entstandene Massenbewegung analysierte, deren objektive Funktion die Zerschlagung der gesamten Arbeiterbewegung sei. Als Gegenstrategie setzte sich Trotzki in Schriften wie Gegen den Nationalkommunismus, Soll der Faschismus wirklich siegen, Wie wird der Nationalsozialismus geschlagen? und Was Nun? Schicksalsfragen des deutschen Proletariats für eine Einheitsfront von SPD, KPD und Freien Gewerkschaften gegen die NSDAP ein. 1929 hatte Stalin begonnen, die „Neue Ökonomische Politik“ zu revidieren, mit großer Grausamkeit die Kollektivierung der Landwirtschaft durchzusetzen und mit Arbeitsarmeen die Schwerindustrie der Sowjetunion zu errichten. Auch dies wurde von Trotzki und seinen Anhängern, der Untergrundpartei der Linken Opposition, einer scharfen Kritik unterzogen. Trotzki hatte sich für eine umfassende Industrialisierung in einem langsameren Tempo und eine freiwillige Kollektivierung der Bauernschaft auf der Basis einer neu zu errichtenden Sowjetdemokratie ausgesprochen. Trotzki schrieb im Exil Pamphlete gegen Stalin, die unter anderem exklusiv in der New York Times veröffentlicht wurden.[14] Am 20. Februar 1932 wurde Trotzki die sowjetische Staatsbürgerschaft aberkannt, womit gleichzeitig die Verfolgung durch den sowjetischen Geheimdienst GPU begann. Mit der kampflosen Niederlage der deutschen Arbeiterbewegung, die Trotzki im Wesentlichen als Resultat des Versagens von KPD und Komintern ansah, nahm Trotzki von seiner 1929 bis 1933 vertretenen Strategie einer Reform der stalinistischen Parteien und der Komintern Abstand und nahm Kurs auf die Gründung einer neuen, „vierten“ kommunistischen Internationalen und führte in diesem Rahmen zunächst auch (zumeist letztendlich erfolglose) Verhandlungen mit den im Londoner Büro zusammengeschlossenen Gruppen wie der SAPD oder der niederländischen Organisation um Henk Sneevliet. Die französische Regierung Daladiers gewährte ihm Asyl in Frankreich. Er hielt sich zunächst in St.Palais sur Mer,[15] später in Barbizon auf. Für Paris erhielt er keine Zugangserlaubnis. Bereits 1935 wurde ihm signalisiert, dass sein Aufenthalt in Frankreich nicht länger erwünscht sei. Er nahm ein Angebot Norwegens auf Asyl an. Er lebte dort als Gast Konrad Knudsens in Hønefoss nahe Oslo. Mit seiner regen publizistischen Tätigkeit griff er den Stalinismus mit den Moskauer Prozessen an, in denen er als Haupt einer großen Verschwörung gegen Stalin und sein System in Abwesenheit angeklagt worden war. Infolge des von der Sowjetunion ausgeübten diplomatischen Drucks wurde Trotzki von den norwegischen Behörden unter Hausarrest gesetzt. Nach Verhandlungen mit der norwegischen Regierung konnte er unter der Auflage strenger Geheimhaltung auf einem Frachtschiff nach Mexiko ausreisen. Leo Trotzki in Mexiko 1938 Trotzki (Mitte) kurz vor seinem Tod Gemeinsam mit Frida Kahlo hatte sich Diego Rivera beim mexikanischen Präsidenten Lázaro Cárdenas del Río dafür eingesetzt, Trotzki politisches Asyl in Mexiko zu gewähren. Unter der Bedingung, dass jener sich nicht politisch betätigen würde, stimmte der Präsident dem Gesuch zu.[16] Im Januar 1937 wurden Trotzki und dessen Frau Natalja Sedowa in Kahlos blauem Haus in Coyoacán empfangen. Im Jahr 1938 beherbergte Rivera auch den surrealistischen Vordenker André Breton und dessen Frau Jacqueline. Die beiden Künstler unterzeichneten ein von Trotzki verfasstes Manifest für eine revolutionäre Kunst. In seinem Exil agitierte er weiterhin gegen Stalin, deckte nach seinen Möglichkeiten die Verbrechen der GPU und der Gulags auf und veröffentlichte verschiedene kommunistische Schriften, zum Beispiel 1936 Die verratene Revolution, in der er die Sowjetunion als „bürokratisch degenerierten Arbeiterstaat“ bezeichnete und die sowjetische Arbeiterklasse zu einer politischen Revolution gegen die stalinistische Bürokratie und zur Wiederherstellung der Rätedemokratie aufrief. Die von der Zensur kontrollierte sowjetische Presse griff ihn dafür als „Wolf des Faschismus“ an.[17] 1938 gründete Trotzki die Vierte Internationale, um der inzwischen unter Stalins Dominanz stehenden Dritten Internationalen entgegenzuwirken. Für die neugegründete Organisation verfasste Trotzki im selben Jahr mit Der Todeskampf des Kapitalismus und die Aufgaben der 4. Internationale (besser bekannt als „Das Übergangsprogramm“) und 1940 mit dem Manifest der IV. Internationale zum imperialistischen Krieg und zur proletarischen Weltrevolution grundlegende programmatische Dokumente. Daneben widmete er sich in seinem letzten Lebensjahr der Auseinandersetzung mit der von James Burnham und Max Shachtman vertretenen These, dass sich die Sowjetunion zu einer stabilen neuen Form von Klassengesellschaft entwickelt habe. Ermordung Das festungsartig angelegte Haus, in dem Trotzki ermordet wurde Am 24. Mai 1940 überlebte Trotzki einen Angriff auf sein Haus in Coyoacán in der Avenida Río Churubusco 410. Trotzki wurde von mehreren, von Stalin gesandten und als mexikanische Polizisten getarnten Agenten attackiert, allerdings so dilettantisch, dass man vielfach an eine Inszenierung glaubte, die Trotzki international wieder in den Mittelpunkt rücken sollte. Aus Angst vor weiteren Anschlägen ließ er danach das Haus ausbauen und bewachen: Die Mauern wurden erhöht, Holztüren durch Eisentüren ersetzt, Fenster teilweise zugemauert. Sieben bis acht Wachleute schützten freiwillig und unbezahlt das kleine Anwesen in der verkehrsreichen inneren Ringstraße im Süden von Mexiko-Stadt rund um die Uhr. Das Arbeitszimmer, in dem Leo Trotzki ermordet wurde Trotzkis Grab im Garten des Museo Casa de León Trotsky Drei Monate später hatte ein von Stalin beauftragter Mordanschlag Erfolg: Der Sowjetagent Ramón Mercader hatte sich als Frank Jacson mit einer Sekretärin Trotzkis verlobt und so Zugang zu dessen Anwesen erhalten. Am 20. August besuchte er Trotzki und bat um Durchsicht eines von ihm verfassten politischen Artikels. Kurz nach 17 Uhr griff Mercader Trotzki in dessen Arbeitszimmer mit einem Eispickel an, wobei Trotzki schwer am Kopf verletzt wurde. Seine Leibwächter fanden ihn blutüberströmt, aber noch bei Bewusstsein. Einen Tag später starb Leo Trotzki an den Folgen dieses Anschlags. In Mexiko trauerten viele um Trotzki. 300.000 Menschen begleiteten Trotzkis Leichenzug in Mexiko. Seine Leiche wurde eingeäschert und im Garten seines Hauses begraben. 22 Jahre später kam die Asche seiner in Paris gestorbenen Frau Natalja dazu. Diese Stelle markiert heute ein weißer, mit Hammer und Sichel gekennzeichneter Stein mit einer roten Fahne. Das Haus des Anschlags kann heute als Museo Casa de León Trotsky besichtigt werden. Am Aufbau des Museums war Trotzkis Enkel Esteban Volkov beteiligt.[18] Arnold Zweig bemerkte in seinem Tagebuch, Trotzki sei der Mann, „der das kostbarste und bestorganisierte Gehirn unter seiner Schädeldecke trug, das jemals mit einem Hammer eingeschlagen wurde“. Im Jahr 2005 wurde der verschollen geglaubte Eispickel gefunden.[19] Das Mordinstrument wurde nach Trotzkis Tod im Kriminologischen Museum in Mexiko-Stadt ausgestellt, dann aber wegen Diebstahlsgefahr durch eine Kopie ersetzt. Ein mexikanischer Geheimdienstler, auch ein Mitbegründer des Museums, habe den Originalpickel an sich genommen und aufbewahrt, schrieb die mexikanische Tageszeitung La Jornada. Seine Tochter berichtete, dass ihr Vater viermal vergeblich versucht habe, den Eispickel zurückzugeben. Doch niemand wollte das Original zurückhaben. Dann nahm diese Tochter den Eispickel an sich und präsentierte ihn in einer Radiosendung. Rezeption Westdeutsche Studentenbewegung der 1960er Jahre Der Mensch am Scheideweg/Der Mensch kontrolliert das Universum, Detail mit Trotzki-Porträt, Diego Rivera Nach seiner Ausbürgerung verfiel Trotzki in der Sowjetunion zunehmend der Damnatio memoriae: Seine Leistungen für die Partei und die prominente Rolle, die er beim Oktoberaufstand, beim Aufbau der Roten Armee oder bei der blutigen Niederschlagung des Kronstädter Aufstands gespielt hatte, wurden verschwiegen, geleugnet oder denunziert. Im Kurzen Lehrgang der Geschichte der KPdSU (B), einer unter der Ägide Stalins 1938 erschienenen offiziellen Darstellung, wurde seine Rolle im Oktober 1917 auf die eines Widersachers Lenins und eines Großmauls reduziert, das den Termin des Aufstands verraten und dessen Erfolg dadurch gefährdet habe.[20] Noch radikaler wurde die Erinnerung an Trotzki aus dem sowjetischen Bildgedächtnis getilgt. Fotos, auf denen er zusammen mit Lenin oder Stalin zu sehen war, wurden kupiert oder retuschiert. Berühmteste Beispiele sind die Bilder, die Grigori Goldstein am 5. Mai 1920 von einer Rede Lenins vor dem Bolschoi-Theater in Moskau machte: In den dreißiger Jahren durften nur Bildausschnitte veröffentlicht werden, die Trotzki nicht enthielten, in den sechziger Jahren retuschierte man ihn gänzlich aus dem Bild.[21] Noch 1940 wurde Trotzkis Mörder Ramón Mercader von Stalin der Leninorden verliehen, der Orden wurde seiner Mutter übergeben. Nach Verbüßung der 20-jährigen Freiheitsstrafe wurde Mercader am 31. Mai 1960 der Titel eines Helden der Sowjetunion verliehen und er wurde nach Moskau eingeladen. Dort überreichte man ihm im Jahre 1961 den Stern eines Helden der Sowjetunion samt dazugehörigen Leninorden. Die KPdSU hat den Revolutionsführer und Organisator der Roten Armee nie rehabilitiert, sowohl Nikita Chruschtschow als auch der Reformer Michail Gorbatschow versagten ihm jegliche posthume Würdigung. Das Nachrichtenmagazin Der Spiegel veröffentlichte 1987 ein Interview mit dem früheren Dissidenten Roi Medwedew zur Rehabilitierung Bucharins[22] und einen Bericht, laut dem der Gorbatschow-Vertraute Jegor Jakowlew den Erzfeind Stalins einen „Helden und Märtyrer“ nannte.[23] 1989 äußerte Jakowlew jedoch gegenüber dem deutschen Politiker Gregor Gysi: „Trotzki war ein erbarmungsloser Mensch, dessen Hände über und über mit Blut befleckt sind.“ Trotzkis deportierter und 1937 ermordeter Sohn Sergei Sedow wurde 1988 rehabilitiert. Trotzkis bis dahin verbotene Schriften wurden 1987 teilweise, dann ab 1989 vollständig veröffentlicht. Nachwirken Auch zu Beginn des 21. Jahrhunderts existieren in vielen Staaten kleine und größere trotzkistische Vereinigungen. In Großbritannien, Frankreich und einigen Ländern Lateinamerikas, wie beispielsweise Mexiko, haben sich größere trotzkistische Organisationen erhalten und gewinnen in den letzten Jahren dort auch wieder zunehmend an Bedeutung. Die Vierte Internationale ist inzwischen in mehrere Zusammenschlüsse gespalten, deren Einfluss stark begrenzt ist. Siehe auch: Trotzkismus enügen, um anzudeuten, daß es sich bei den Grundprinzipien nicht um ein abgeschlossenes Programm handelt, sondern um einen ersten Versuch, dem Problem der kommunistischen Produktion und Verteilung näher zu kommen. Und obwohl die Grundprinzipien sich mit einem noch in der Zukunft liegenden gesellschaftlichen Zustand befassen, sind sie zugleich ein geschichtliches Dokument, das einen Stand der Diskussion in der Vergangenheit beleuchtet. Ihre Verfasser waren an die vor einem halben Jahrhundert aufgeworfenen Fragen der Sozialisierung gebunden, und manche ihrer Argumente haben in der Zwischenzeit einen Teil ihrer damaligen Aktualität verloren. Der damalige Streit der Naturalwirtschaftler mit den Repräsentanten der Marktwirtschaft, in den die Grundprinzipien durch die Ablehnung beider Gruppen eingriffen, hat inzwischen sein Ende gefunden. Im allgemeinen wird der Sozialismus überhaupt nicht mehr als eine neue Gesellschaft, sondern als eine Modifikation des Kapitalismus begriffen. Die Marktwirtschaftler sprechen von der geplanten Marktwirtschaft, und die Planwirtschaftler bedienen sich der Marktwirtschaft. Die Anordnung der Produktion vom Gebrauchswert her schließt nicht die ungleiche Verteilung der Konsumgüter durch Preismanipulationen aus. Die ökonomischen Gesetze werden als unabhängig von den Gesellschaftsformationen aufgefaßt, und man streitet sich höchstens noch darüber, welche Mischung von Kapitalismus und Sozialismus ökonomischer wäre. Das ökonomische Prinzip, d.h. das Prinzip der wirtschaftlichen Rationalität, das angeblich allen Gesellschaftsordnungen zugrunde liegt und das sich als maximale Verwirklichung wirtschaftlicher Ziele mit den geringsten Kosten darstellt, ist in Wirklichkeit nichts anderes als das ordinäre kapitalistische Prinzip der Profitproduktion, die stets nach dem Höchstmaß der Ausbeutung strebt. Das ökonomische Prinzip der Arbeiterklasse ist demzufolge nichts anderes als die Abschaffung der Ausbeutung. Dieses ökonomische Prinzip, von dem die XVI Grundprinzipien ausgehen, ist ihnen bis heute vorbehalten geblieben. Abgesehen von der offensichtlichen Ausbeutung der Arbeiter in den sogenannten sozialistischen Ländern, dreht sich das akademische Geschwätz um den Sozialismus in den kapitalistischen Ländern nur um staatskapitalistische Systeme. Das sozialistische Eigentum an den Produktionsmitteln wird immer als Staatseigentum verstanden, die administrative Zuteilung von Gütern, mit oder ohne Markt, bleibt immer die Sache zentraler Entscheidungen. Wie im Kapitalismus ist die Ausbeutung zweifach gesichert, durch die fortgesetzte Trennung der Produzenten von den Produktionsmitteln und durch die Monopolisierung der politischen Gewalt. Und wo man den Arbeitern eine Art Mitbestimmungsrecht zugestanden oder aufgedrängt hat, fügt der Marktmechanismus der staatlichen Ausbeutung die Selbstausbeutung hinzu. Was auch immer die Schwächen der Grundprinzipien sein mögen, in Anbetracht dieser Situation bleiben sie heute wie morgen der Ausgangspunkt aller ernsthaften Diskussionen und Bemühungen um die Verwirklichung der kommunistischen Gesellschaft. Februar 1970, Paul Mattick XII Statt des Vorwortes Nachstehendes Werk, eine gemeinsame Arbeit der "G r u p p e Internationaler Kommunisten" , zeigt in Zusammenstellung eine so starke Einheitlichkeit, daß man hier direkt von einem, wirklich positiven Kollektivwerk sprechen kann. Diese Arbeitsgrundlage der Schrift, die praktisch beweist, welches Ergebnis die gemeinsame Arbeit zielbewußter Kräfte haben kann, macht sie gerade deshalb so wertvoll. Die "Gruppe Internationaler Kommunisten" stellt, in der Nachkriegsgeschichte der Arbeiterbewegung, mit ihrem Werk erstmalig praktische Aufbaumöglichkeiten der Produktion und Verteilung im Sinne der Bedarfswirtschaftsordnung zur Debatte. Sie zieht alle gesammelten Erfahrungen der bisherigen Versuche der Arbeiterklasse und ihrer Wortführer zusammen, um so praktisch die Zusammenbruchserscheinungen derselben untersuchen zu können, und gleichzeitig an Hand der bisherigen Ergebnisse notwendige neue Wege aufzuzeigen. Sie behandelt nicht nur die Umstellungs- und Aufbaunotwendigkeiten der industriellen Faktoren, sondern zeigt ebenfalls die notwendige Verbindung zur Landwirtschaft auf. Die Verfasser eben damit einen klaren Einblick in die inneren Zusammenhänge und den gesetzmäßigen Verlauf des "gesamten" Wirtschaftskörpers. Die einfache Sprache, die jedem verständlichen Gedankengänge, ermöglichen es, daß jeder Arbeiter, der nachfolgende Seiten liest, auch den Inhalt verstehen wird. Die starke Sachlichkeit der Schrift bietet sämtlichen Richtungen der Arbeiterklasse eine breite Diskussionsmöglichkeit. Da auch wir innerhalb unserer Reihen die aufgezeigten Möglichkeiten erst gründlichst diskutieren müssen, behalten wir uns unsere Stellungnahme zu nachstehendem Inhalt für später vor. Eins wollen wir aber dieser Schrift mit auf den Weg geben: Seinen Erfolg wird das Werk: Grundprinzipien kommunistischer Produktion und Verteilung dann verbürgen, wenn es die Arbeiterklasse bewußt durcharbeitet und die gesammelten Erkenntnisse in ihrem Kampf um ihre Existenz praktisch in Anwendung bringt. Der Kampf ist schwer, doch das Ziel ist es wert! Berlin 1930. Allgemeine Arbeiter-Union (Revolutionäre Betriebsorganisation .Deutschland).

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Unter Rätekommunismus versteht man eine marxistische Bewegung, deren Idee des Kommunismus vor allem vom Gedanken der kollektiven Selbstverwaltung und Basisdemokratie in Arbeiterräten geprägt ist. Inhaltsverzeichnis 1 Konzeption 2 Geschichte und Einfluss 3 Literatur 4 Weblinks Konzeption Nach Meinung der Rätekommunisten sollen in der kommunistischen Revolution die Arbeiterräte an die Stelle der Regierung treten, jedoch die Ausbildung eines autoritären Staates verhindern. Die entsprechende Gesellschaftsform wird Rätedemokratie oder Räterepublik genannt. Der Rätekommunismus steht in unversöhnlichem Gegensatz zur kapitalistischen Gesellschaft, zum Parlamentarismus und auch zum autoritären Marxismus-Leninismus. Die Sowjetunion war in ihrer Anfangszeit stark von Idee und Praxis der Rätedemokratie getragen („Alle Macht den Räten“, lautete eine Parole der Bolschewiki), bis sich spätestens unter der Herrschaft des Stalinismus die Macht der Räte schrittweise auflöste. Die Herrschaftsausübung im Rätekommunismus erfolgt maßgeblich in den Räten, welche als Exekutive, Legislative aber auch als Judikative in einem agieren. Die Vertreter dieser Organe unterliegen einem imperativen Mandat, d. h., sie können jederzeit von der Wählerschaft wieder abgewählt werden. Es besteht Rechenschaftspflicht, wodurch eine radikale Demokratie gewährleistet ist. Angehörige des Bürgertums haben in der Regel keinen Zugang zu den Räten, wie sie bereits aus den Sowjets in der russischen Revolution ausgeschlossen waren. Als Vorbild einer rätedemokratischen Organisationsstruktur gilt insbesondere die bereits von Karl Marx euphorisch begrüßte Pariser Kommune, in die Herausbildung der Idee des Rätekommunismus sind aber auch syndikalistische Konzeptionen eingeflossen. Geschichte und Einfluss Ihre Blütezeit erlebte die Idee der Rätedemokratie vor allem in Deutschland mit der Novemberrevolution im Jahr 1918 und in deren unmittelbarer Folgezeit. Im engeren Sinne rätekommunistische Organisationen entwickelten sich im Zuge der nach der Novemberrevolution zunehmenden Fraktionskämpfe innerhalb der deutschen Linken. Nach dem Ausschluss vieler Linksabweichler aus der Kommunistischen Partei Deutschlands (KPD) unter Führung von Paul Levi Ende 1919 gründete sich die Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands (KAPD) sowie die linke Richtungsgewerkschaft Allgemeine Arbeiter-Union Deutschlands (AAUD). Diese Organisationen verfügten zum Zeitpunkt ihrer Gründung über etwa hunderttausend Mitglieder – und hatten damit mehr Mitglieder als die KPD. Die wichtigste inhaltliche Differenz zwischen KPD und Rätekommunisten bestand in der Einschätzung der Führungsrolle der Partei, die von den Rätekommunisten zugunsten des Gedankens der Selbstverwaltung vehement abgelehnt wurde. Auch die Einschätzung der Entwicklung in der jungen Sowjetunion war wesentlich verschieden: Die Rätekommunisten bezeichneten die Parteiherrschaft in der Sowjetunion nach der Entmachtung der Räte als Staatskapitalismus, womit sie die Tatsache in den Blick rückten, dass die bloße Verstaatlichung der Produktionsmittel noch nicht zu ihrer Vergesellschaftung geführt habe. Stattdessen habe der Staat die Funktion der Kapitalistenklasse innerhalb der Gesellschaft übernommen. Eine Befreiung von der Lohnarbeit habe nicht stattgefunden. Bestanden ursprünglich noch gute Kontakte zur III. Kommunistischen Internationale, kam es bald darauf zum Bruch. Lenin griff die Rätekommunisten in seinem Buch Der linke Radikalismus, die Kinderkrankheit im Kommunismus scharf an. Ende 1921 trennten sich Teile der AAUD von der KAPD und existierten als Allgemeine Arbeiter-Union – Einheitsorganisation (AAUE) weiter. Die rätekommunistische Bewegung verlor nach den erneut aufflammenden revolutionären Unruhen 1923 in Deutschland zunehmend an Einfluss. Rätekommunistische Organisationen in der Endphase der Weimarer Republik und im Widerstand gegen den Faschismus waren die Roten Kämpfer, die Kommunistische Räte-Union und die Kommunistische Arbeiter Union Deutschlands (KAUD). Rätekommunistische Ideen hatten auch in den Niederlanden, Großbritannien sowie Bulgarien und Dänemark Einfluss in der sozialrevolutionären Bewegung. Zu den wichtigsten Theoretikern des Rätekommunismus zählen Anton Pannekoek (Pseudonym Karl Horner), Paul Mattick, Karl Korsch, Otto Rühle, Herman Gorter, Willy Huhn, Cajo Brendel, Sylvia Pankhurst sowie die späteren Nationalbolschewisten Heinrich Laufenberg und Fritz Wolffheim. Auch die spätere Neue Linke um 1968 sowie insbesondere die Situationisten in Frankreich waren von rätekommunistischen Ideen beeinflusst. Literatur Anton Pannekoek: Arbeiterräte. Texte zur sozialen Revolution. Germinal Verlag, Fernwald (Annerod) 2008. ISBN 978-3-88663-490-3. Anton Pannekoek: Workers’ Councils. (Introduction by Noam Chomsky) AK Press Oakland and Edinburgh 2003. Cajo Brendel: Anton Pannekoek. Denker der Revolution Freiburg 2001. (Memento vom 1. Oktober 2010 im Internet Archive) Herman Gorter: Offener Brief an den Genossen Lenin Eine Antwort auf Lenins Broschüre: "Der „Linke Radikalismus“, die Kinderkrankheit im Kommunismus" (1920) Andreas G. Graf (Hrsg.), Anarchisten gegen Hitler. Anarchisten, Anarcho-Syndikalisten, Rätekommunisten in Widerstand und Exil. Berlin: Lukas-Verlag 2001, ISBN 3-931836-23-1 Frits Kool (Hrsg.): Die Linke gegen die Parteiherrschaft. (Band 3 der 'Dokumente der Weltrevolution') Olten und Freiburg 1970. Gottfried Mergner (Hrsg.): Gruppe Internationale Kommunisten Hollands. Reinbek 1971. H. (FAU-Bremen): Syndikalismus, kommunistischer Anarchismus und Rätekommunismus. Eine Erwiderung auf die rätekommunistische Kritik am „Gewerkschaftsfetischismus“ und am kommunistischen Anarchismus Erich Mühsams, Bremen 2005. Hans Manfred Bock: Syndikalismus und Linkskommunismus von 1918 bis 1923. Zur Geschichte und Soziologie der Freien Arbeiter-Union Deutschlands (Syndikalisten), der Allgemeinen Arbeiter-Union Deutschlands und der Kommunistischen Arbeiter-Partei Deutschlands (Marburger Abhandlungen zur Politischen Wissenschaft, Bd. 13). Meisenheim/Glan 1969. Hans Manfred Bock: Geschichte des ‘linken Radikalismus’ in Deutschland. Ein Versuch. Frankfurt/M. 1976. Philippe Bourrinet: The Dutch and German Communist Left: A Contribution to the History of the Revolutionary Movement., 1988–1998 ders.: Lexikon des deutschen Rätekommunismus 1920-1960, Paris, 1. Juli 2017, Verlag moto proprio, 我的摩托 车出版社 W.I. Lenin: Der „Linke Radikalismus“, die Kinderkrankheit im Kommunismus (1920); in: W.I. Lenin Werke Band 31, Berlin (DDR): Dietz Verlag, 1964 Die Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands (KAPD) war eine kommunistische Partei während der Weimarer Republik, die linke, antiparlamentaristische und rätekommunistische Positionen vertrat. Inhaltsverzeichnis 1 Geschichte 2 Siehe auch 3 Literatur 4 Weblinks Geschichte Die KAPD wurde am 4./5. April 1920 von Mitgliedern des linken Flügels der Kommunistischen Partei Deutschlands (KPD) gegründet, die auf dem Heidelberger Parteitag der KPD (20.–23. Oktober 1919) durch die Zentrale Leitung unter Paul Levi ausgeschlossen worden waren. Viele von ihnen waren vor der KPD-Gründung in der Gruppe Internationale Kommunisten Deutschlands aktiv. Ihr Hauptziel war die sofortige Beseitigung der bürgerlichen Demokratie und die Konstituierung einer Diktatur des Proletariats, wobei eine Diktatur einer Partei nach russischem Vorbild verworfen wurde. Die KAPD lehnte, anders als die KPD, insbesondere die leninistische Organisationsform des sogenannten demokratischen Zentralismus, die Teilnahme an Wahlen und die Mitarbeit in reformistischen Gewerkschaften ab. Eine wichtige Rolle für die KAPD spielten die niederländischen kommunistischen Theoretiker Anton Pannekoek und Herman Gorter, die nach dem Vorbild der KAPD in den Niederlanden die KAPN ins Leben riefen, die freilich niemals die Bedeutung der Schwesterpartei in Deutschland erreichte. Hintergrund für die Gründung der KAPD war der Kapp-Putsch. Er hatte nach Ansicht des linken Flügels in der KPD gezeigt, dass das Verhalten der KPD-Parteileitung gleichbedeutend mit einem Aufgeben des revolutionären Kampfes war, da die KPD eine mehrmals wechselnde Haltung zum Generalstreik eingenommen und im Bielefelder Abkommen vom 24. März 1920 einer Entwaffnung der Roten Ruhrarmee zugestimmt hatte. Die Berliner Bezirksgruppe rief zum 3. April 1920 einen Kongress der linken Opposition ein. Dort wurde beschlossen, sich als die „Kommunistische Arbeiter-Partei Deutschlands“ zu konstituieren. Die Delegierten vertraten nach Schätzungen 80.000 KPD-Mitglieder. Die neu gegründete Partei trat für die Ablehnung der parlamentarischen Tätigkeit und den aktiven Kampf gegen den bürgerlichen Staat ein. Sie arbeitete in der Folgezeit eng mit der AAUD zusammen. Hochburgen der Partei lagen in Berlin, Hamburg, Bremen und Ostsachsen, wo sich jeweils ein Großteil der KPD-Mitglieder der neuen Partei anschloss. Im August 1920 erfolgte der Ausschluss der Hamburger Gründungsmitglieder Heinrich Laufenberg und Fritz Wolffheim, die nationalbolschewistische Ideen vertreten hatten. Zwei Monate später wurde auch Gründungsmitglied Otto Rühle ausgeschlossen. Die KAPD war 1920 bis 1921 kooptiertes Mitglied der III. Internationale. 1921 kooperierte die KAPD bei der Märzaktion wieder mit der KPD. Ausgelöst wurde dies durch den Einmarsch von Truppen der Weimarer Republik in das mitteldeutsche Industriegebiet, wobei KAPD und KPD befürchteten, dass das Militär die Betriebe besetzen wollte. Ende 1921 kam es zu einer weiteren Absplitterung, als sich Teile der AAUD um Rühle, Franz Pfemfert und Oskar Kanehl von der KAPD trennten und die AAUE gründeten. Nach 1921, als die KAPD noch über 43.000 Mitglieder verfügte, verlor die die Partei mehr und mehr an Bedeutung und spaltete sich 1922 in die „Berliner Richtung“ und die „Essener Richtung“ um Alexander Schwab, Arthur Goldstein, Bernhard Reichenbach und Karl Schröder. Hauptgrund war die Ablehnung der Beteiligung an betrieblichen Tageskämpfen in einer als revolutionär eingeschätzten Situation durch die Essener. Die Gründung einer Kommunistischen Arbeiter-Internationale (KAI) 1922 durch die KAPD der „Essener Richtung“ (die „Berliner Richtung“ lehnte diesen Schritt als verfrüht ab), gemeinsam mit den Gruppen um Herman Gorter in den Niederlanden, um Sylvia Pankhurst in Britannien und weiteren Gruppen in Belgien, Bulgarien und unter Exilanten aus der Sowjetunion war wenig erfolgreich. Die KAI, deren Sekretariat von der deutschen Sektion dominiert wurde, zerfiel bis 1925. 1926/1927 kam es zum kurzfristigen Zusammenschluss der KAPD (Berliner Richtung) mit der Entschiedenen Linken um den aus der KPD ausgeschlossenen Abgeordneten Ernst Schwarz. Diese Fusion führte innerhalb der KAPD zu einer weiteren Spaltung, da Schwarz sein Abgeordnetenmandat nicht niederlegte, wie es eine Minderheit der Mitglieder forderte, die sich nach dem darauf erfolgten Austritt um die Zeitschrift Vulkan gruppierte. Widerstandsgruppen gegen den Nationalsozialismus, die in der Tradition der KAPD standen, waren die Roten Kämpfer und die Kommunistische Räte-Union im Raum Braunschweig. Genuine KAPD-Widerstandsgruppen gab es im Ruhrgebiet, in Leipzig (wo die örtliche KAPD-Gruppe in ihrer Druckerei auch Materialien für andere Widerstandsgruppen erstellte), in Königsberg und im litauischen Memel. Weitere bekannte Mitglieder der KAPD waren die Schriftsteller Franz Jung, Adam Scharrer und Friedrich Wendel, der Künstler Heinrich Vogeler, der Pressefotograf John Graudenz, der Anthropologe Paul Kirchhoff, die Anführer bewaffneter kommunistischer Partisanengruppen 1920/1921 Max Hölz und Karl Plättner, die rätekommunistischen Theoretiker und Aktivisten Fritz Rasch, Paul Mattick und Jan Appel sowie August Merges, der 1918/1919 kurzzeitig Präsident der Sozialistischen Republik Braunschweig war. Siehe auch Liste linkskommunistischer Organisationen in der Weimarer Republik Literatur Hans Manfred Bock: Syndikalismus und Linkskommunismus von 1918–1923. Zur Geschichte und Soziologie der Freien Arbeiter-Union Deutschlands (Syndikalisten), der Allgemeinen Arbeiter-Union Deutschlands und der Kommunistischen Arbeiter-Partei Deutschlands (= Marburger Abhandlungen zur Politischen Wissenschaft. Bd. 13, ISSN 0542-6480). Hain, Meisenheim am Glan 1969 (Zugleich: Marburg, Universität, Dissertation, 1968). Hans Manfred Bock: Geschichte des „linken Radikalismus“ in Deutschland. Ein Versuch (= Edition Suhrkamp 645). Suhrkamp, Frankfurt am Main 1976, ISBN 3-518-00645-2. Die Allgemeine Arbeiter-Union – Einheitsorganisation (AAUE, auch AAU-E) war eine antiparlamentarische und antiautoritäre rätekommunistische Organisation in der Weimarer Zeit. Inhaltsverzeichnis 1 Entstehung 2 Fraktionskämpfe und Zerfall 3 Reorganisationsversuch 4 Siehe auch 5 Literatur 6 Weblinks Entstehung Die AAUE konstituierte sich im Oktober 1921, nachdem es in der KAPD und der ihr angeschlossenen betrieblichen Organisation Allgemeine Arbeiter-Union Deutschlands (AAUD) zu verstärkter Kritik an der Unterordnung der AAUD unter die KAPD gekommen war. Ansatz der Kritik war es, eine politisch-betriebliche Einheitsorganisation aufzubauen. Der neuen Organisation schlossen sich wesentliche Teile der AAUD-Strukturen in Ostsachsen und Nordwestdeutschland sowie Minderheiten in anderen Regionen an; bekannte Gründungsmitglieder waren u. a. der ehemalige Reichstagsabgeordnete Otto Rühle, der Herausgeber der Aktion, Franz Pfemfert, der Dichter Oskar Kanehl und der bekannte Strafverteidiger in politischen Prozessen, James Broh. Die AAUE gab die Wochenzeitungen Einheitsfront und Betriebsorganisation heraus und verfügte mit der Aktion über eine ihr nahestehende Zeitschrift. Durch die Verbindung mit der Aktion bewegten sich zeitweise auch Schriftsteller wie Max Herrmann-Neiße und Carl Sternheim im Umfeld der Organisation. Über die Mitgliederzahlen gibt es keine genaueren Angaben, die von Pfemfert genannten anfänglichen 60.000 Mitglieder dürften jedoch übertrieben gewesen sein. Fraktionskämpfe und Zerfall Schnell kam es in der neuen Organisation zu Fraktionskämpfen und zentrifugalen Tendenzen, welche bis Mitte der 1920er Jahre zur Aufspaltung in mehrere, alle den Namen AAUE tragenden Gruppen führte. Die drei letztgenannten Organisationen dürften in der Endphase der Weimarer Republik alle jeweils einige hundert Mitglieder gehabt haben: „Heidenauer Richtung“ um die Zeitschrift Revolution. Sie pflegte eine individualistische und organisationsfeindliche Ausrichtung und löste sich konsequenterweise 1923 selbst auf. „Zwickauer Richtung“ um die Zeitschrift Weltkampf. Sie trat für die Beteiligung an Betriebsratswahlen und Annäherung an anarchosyndikalistische Positionen ein, 1923 erfolgt der Anschluss an die Freie Arbeiter-Union Deutschlands (FAUD). „2. Zwickauer Richtung“ um die Wochenzeitungen Proletarischer Zeitgeist (Zwickau, Auflage im Jahr 1932 von 2.400 Exemplaren) und Von Unten Auf (Hamburg). Sie zeigte Nähe zu anarchistischen Positionen und starke Intellektuellenfeindlichkeit. 1924 schloss sich dieser Organisation eine Gruppe ehemaliger KPD-Mitglieder um Ketty Guttmann an und konnte sich bis zur teilweisen Zerschlagung während der Zeit des Nationalsozialismus halten. Die Hamburger Gruppe um Otto Reimers gab in der Illegalität bis Mitte 1934 den Mahnruf heraus, anderen lokalen Gruppen gelang es teilweise die NS-Zeit zu überdauern. „Frankfurt-Breslauer Richtung“ um die Zeitschrift Die Proletarische Revolution. Sie stand in Verbindung zu den rätekommunistischen Ideen der Individualpsychologie Alfred Adlers. Sie arbeitete eng mit Otto Rühle zusammen und war aktiv in der proletarischen Freidenkerbewegung. 1931 Zusammenschluss mit Teilen der AAUD und der KAPD zur Kommunistischen Arbeiter Union Deutschlands (KAUD). Im Kopf der KAUD-Zeitschrift Der Kampfruf, die bis 1933 in Berlin erschien, bezeichnet sich die Gruppe auch als KAU-RBO (Revolutionäre Betriebsorganisation). Ehemalige Mehrheitsfraktion der alten AAUE um Franz Pfemfert und Oskar Kanehl. 1926/1927 zeitweiliger Zusammenschluss mit einer ultralinken KPD-Abspaltung um Iwan Katz und dem Industrieverband für das Verkehrsgewerbe zum Spartakusbund linkskommunistischer Organisationen (Spartakusbund Nr. 2). Sie gab Einheitsfront und später Spartakus und Die Weltrevolution heraus, zerfiel aber 1932/33. Reorganisationsversuch Versuche der Strömung um den Proletarischen Zeitgeist, nach 1945 in der Zwickauer Region die Organisation wiederherzustellen, wurden 1948 repressiv unterbunden, der leitende Aktivist der Gruppe, Wilhelm Jelinek, starb 1952 unter ungeklärten Umständen im Zuchthaus Bautzen. Anarchismus (abgeleitet von altgriechisch ἀναρχία anarchia ‚Herrschaftslosigkeit‘; Derivation aus α privativum und ἀρχή arche ‚Herrschaft‘) ist eine politische Ideenlehre und Philosophie, die Herrschaft von Menschen über Menschen und jede Art von Hierarchie als Form der Unter­drückung von Freiheit ablehnt. Dieser wird eine Gesell­schaft entgegengestellt, in der sich Individuen auf freiwilliger Basis selbst­bestimmt und föderal in Kollektiven verschiedener Art wie Kommunen als kleinster Einheit des Zusammen­lebens, Genossenschaften und Syndikaten als Basis der Produktion zusammen­schließen.[1] Es gibt innerhalb des Anarchismus viele teils sehr unterschiedliche Strömungen. Grundsätzlich bedeutet Anarchie die Aufhebung hierarchischer Strukturen – bis hin zur Auflösung staatlicher Organisiertheit der menschlichen Gesellschaft. Im Mittelpunkt stehen Freiheit, Selbstbestimmung, Gleichberechtigung, Selbstverwirklichung der Individuen und kollektive Selbstverwaltung. Der Anarchismus wird in einem sozialrevolutionären Sinn von seinen Vertretern als Synthese zwischen individueller Freiheit wie im Liberalismus und sozialer Verantwortung für die Gemeinschaft wie im Sozialismus verstanden. Menschen, die nach diesen Prinzipien leben oder eine herrschaftsfreie Gesellschaft anstreben, werden als Anarchisten bezeichnet. Bisweilen wird im deutschsprachigen Raum das Adjektiv libertär (deutsch: freiheitlich) als Synonym für „anarchistisch“ benutzt. Inhaltsverzeichnis 1 Strömungen 1.1 Klassifikationen 1.2 Grundformen 1.3 Weitere Strömungen 1.4 Neuere Ansätze 2 Geschichte 2.1 Vorläufer 2.2 Anarchismus versus Marxismus 2.3 Die Propaganda der Tat 2.4 Frühes 20. Jahrhundert 2.5 Spanische Republik 2.6 Deutschland während der NS-Diktatur 2.7 Nachkriegszeit 2.7.1 Deutsche Demokratische Republik 2.7.2 Bundesrepublik Deutschland 2.7.3 International 2.8 Anarchismus in der Gegenwart 2.8.1 Organisationen 2.8.2 Periodika 3 Aktionsformen 4 Symbole 5 Siehe auch 6 Literatur 6.1 Einführungen 6.2 Klassiker 6.3 Moderne Ansätze 6.4 Kritik am Anarchismus 7 Medien 8 Weblinks 9 Einzelnachweise Strömungen Klassifikationen Peter Kropotkin Ein wichtiges Element des Anarchismus ist der innere Pluralismus, der sich in verschieden ausgeformten Strömungen zeigt, die sich meist in ihren Schwerpunkten ergänzen.[2] Alle Strömungen stimmen in der Ablehnung des Staates – besonders in seiner Ausprägung als Monarchie und Diktatur –, des Militarismus und Klerikalismus überein. In der wissenschaftlichen Sekundärliteratur werden unterschiedliche Bestimmungen und Abgrenzungen von Richtungen des Anarchismus diskutiert.[3] Schon 1894 unterschied Rudolf Stammler zwischen „individualistischen“ und „kollektivistischen“ Varianten anarchistischer Ideen.[4] In einer Darstellung von 1937 unterschied Albert Weisbord weiterführend folgende Richtungen:[5] liberal-anarchistisch libertär (Godwin) mutualistisch (Proudhon) amerikanisch-liberal (Thoreau, Warren, Tucker) kommunistisch-anarchistisch kollektivistisch (Bakunin) kommunistisch (Kropotkin, Most, „Chicagoer Märtyrer“). Franz Neumann[6] schlug 1977 eine dann vielfach rezipierte Unterscheidung folgender Strömungen vor: Individual-Anarchismus (Godwin, Stirner, Bellegarrigue) Sozialer Anarchismus (Proudhon, Landauer) Kollektiver Anarchismus (Bakunin) Kommunistischer Anarchismus (Kropotkin, Cafiero, Most) Anarcho-Syndikalismus (Pelloutier, Monatte, CNT) „Neuer Anarchismus und Studentenbewegung“ In ähnlicher Weise unterschied 1972 Erwin Oberländer[7] Individualistischer Anarchismus (Bellegarigue, Tucker, Landauer) Kollektivistischer Anarchismus (Bakunin, früher Kropotkin, Adhémar Schwitzguébel) Kommunistischer Anarchismus (Cafiero, Kropotkin, Reclus, Merlino, Goldman, Most) „Anarchismus und Gewerkschaftsbewegung“ (Pelloutier, Monatte, Machnowschtschina, CNT u. a.) „Anarchismus heute“ (Colin Ward, William O. Reichert) David L. Miller hat in seiner Monographie von 1984[8] außerdem einen „philosophischen Anarchismus“ von „individualistischem“ und „kollektivistischem“ Anarchismus unterschieden, was eine Kategorie für Autoren wie Stirner oder Godwin bereitstellt, deren Wirken den üblichen Ansetzungen einer „anarchistischen Bewegung“ vorausliegt (eine solche wird in der Sekundärliteratur zumeist nicht vor den 1860er-Jahren für greifbar gehalten). Peter Marshall hat 1992 eine einflussreiche, geographisch gegliederte Darstellung vorgelegt, die auch nichtwestliche Traditionen insbesondere des Daoismus, aber auch z. B. Gandhi einbezieht, ebenso „amerikanische Individualisten und Kommunisten“ und auch auf Verbindungen von Anarchismus und der „Neuen Rechten“ eingeht.[9] Auch der Einbezug bestimmter Klassiker ist sowohl unter den Vertretern anarchistischer Ideen wie in der Sekundärliteratur vielfach strittig, so etwa bezüglich Stirners.[10] Grundformen Michail Bakunin. (Photographie von Félix Nadar, ca. 1860) Aus der Geschichte gewerkschaftlicher Organisation und gegenseitiger Unterstützung (frz. assistance mutuelle) hat sich der Mutualismus herausgebildet, der eine soziale Symbiose in einem herrschaftsfreien System zum Ziel hat. Der Mutualismus wurde vor allem von Pierre-Joseph Proudhon geprägt und enthält revolutionäre Elemente. Im Zentrum steht jedoch eine Reform von Kredit- und Währungsordnung mit dem Ziel der Beseitigung des Profits.[11] Das von Proudhon entworfene 'Konzept des anarchistischen Föderalismus' baut auf die Vernetzung kommunaler Strukturen und gilt auch in nachfolgenden Konzepten des Anarchismus als Grundprinzip. Der kollektivistische Anarchismus basiert vor allem auf den Ideen Michail Bakunins und Mitgliedern der Juraföderation. Statt des Privateigentums an Produktionsmitteln sollen die Arbeitsmittel im Besitz überschaubarer Kollektive sein und von den Produzenten selbst kontrolliert und verwaltet werden.[12] Arbeiter sollen von demokratischen Institutionen nach der Zeit ihrer Arbeit vergütet werden. Diese Einkünfte sollten verwendet werden, um Artikel in einem kommunalen Markt zu erwerben. Föderalistische Strukturen sollen den Staat und andere zentralistische Institutionen vollständig ersetzen.[13] Anhänger des kommunistischen Anarchismus fordern einen vollständigen Bruch mit dem Kapitalismus und die Abschaffung des Geldes.[14] Die direkte Entlöhnung soll ersetzt werden durch den freien Zugang zum gemeinsamen Arbeitsprodukt.[15] Peter Kropotkin, als bedeutendster Theoretiker des kommunistischen Anarchismus, wendet sich gegen den ökonomischen Wert im Allgemeinen; sei es Geld, Arbeit oder Ware. Er sieht das Privateigentum als Grund für Unterdrückung und Ausbeutung und schlägt stattdessen eine umfassende Kollektivierung vor.[16] Der individualistische Anarchismus ist eine im 19. Jahrhundert in Nordamerika entstandene Lehre, die das Individuum und seine Interessen als Mittelpunkt der Gesellschaft ansieht, der keinen Gegensatz zu den vorgenannten sozial orientierten Formen darstellt und in Opposition zum Kollektivismus steht. Die individualistische Strömung wurde in den USA vor allem von Benjamin Tucker entwickelt. In Deutschland vertrat ihn der Anarchist und Schriftsteller John Henry Mackay, der sich hauptsächlich auf Benjamin Tucker und Max Stirner berief.[17] Der Individualanarchismus wird häufig als Extremform des Liberalismus beschrieben. Der Gegensatz zwischen Individualismus-Egoismus und Kollektivismus-Altruismus stellt eine wichtige anarchistische Auseinandersetzung dar. Weitere Strömungen Voltairine de Cleyre, eine Vertreterin des Anarchismus ohne Adjektive Wegen der Vielzahl sich inhaltlich überschneidender, im Detail jedoch durchaus verschiedener anarchistischer Ausprägungen wird für den Anarchismus im Allgemeinen, wie ihn etwa Fernando Tarrida del Mármol vertreten hat, der Begriff „Anarchismus ohne Adjektive“ verwendet. Der Ausdruck wird entweder übergreifend auf Anarchismus angewandt, wenn eine spezifische Klassifizierung abgelehnt wird, oder wenn sich dessen Anhänger den verschiedenen Strömungen gegenüber tolerant zeigen. Die bekannteste und international am stärksten organisierte Richtung ist der Anarchosyndikalismus. Seine Idee ist die Zusammenführung der Lohnabhängigen in Gewerkschaften, die sich von Tarifparteien durch die Unterstützung des revolutionären Syndikalismus unterscheiden. Die mit fast zwei Millionen Mitgliedern bislang größte anarchosyndikalistische Gewerkschaft war im Spanien der 1930er Jahre die Confederación Nacional del Trabajo (CNT), die nach der Zeit des Franquismus reorganisiert wurde. Für die rein gewaltfreie Umsetzung steht der Anarchopazifismus (auch gewaltfreier Anarchismus). Hier geht es primär um das Zusammenführen des Anarchismus mit der gewaltfreien Aktionstheorie bzw. mit Theorien der gewaltfreien Revolution. Gewaltkritik wird in diesem Zusammenhang auch als wichtiger Teil anarchistischer Herrschaftskritik verstanden. Auch christliche Anarchisten treten zumeist strikt pazifistisch auf. Sie verneinen die Herrschaft der Kirchen und Priester wie des Staates und glauben, dass Freiheit direkt durch die Lehre Jesu spreche. Eine Strömung des jüdischen Anarchismus, zum Beispiel vertreten von Bernard Lazare, entstand aus den Erfahrungen verschiedener antisemitischer Pogrome des späten 19. Jahrhunderts. Die auch als ‘anarchistischer Zionismus’ bezeichnete Idee war ein jüdisches Gesellschaftssystem ohne Staat. Durch die Zusammenarbeit mit zionistischen Sozialisten wurden viele jüdische Siedlungen in Palästina (Kibbuzim) unter britischem Mandat nach anarchistischen Vorstellungen organisiert.[18] Weitere Denkrichtungen entstanden durch die Verbindung von anarchistischen Ideen mit anderen religiösen Denktraditionen, wie beispielsweise dem Islam, dem Buddhismus und dem Hinduismus. Aus Reflexion über die Niederlage des Anarchismus in der Ukraine wurde der Plattformismus entwickelt, der eine stärkere Gemeinschaft, deutliche Verständigung über die ideologische Ausrichtung und Verbindlichkeit in der Praxis fordert. Ein ähnliches Modell vertritt der Especifismo in Südamerika. Der Insurrektionalismus oder aufständische Anarchismus ist eine revolutionäre Theorie und Praxis innerhalb der freiheitlichen Bewegung, die sich formalen Organisationen wie Basisgewerkschaften und Föderationen entgegenstellt, die auf einem politischen Programm und regelmäßigen Treffen basieren. Stattdessen befürworten Insurrektionisten Direkte Aktion und Zusammenarbeit in informellen kleinen autonomen Basisgruppen, den Affinity Groups (Bezugsgruppen). Der Anarchokapitalismus tritt für eine vom freien Markt, von freiwilligen Übereinkunften und von freiwilligen vertraglichen Bindungen geprägte Gesellschaft ein, die vollständig auf staatliche Institutionen und Eingriffe verzichtet. Die Verhältnisbestimmung dieser Ideen und ihrer Vertreter und Vorläufer zu anderen Formen des Anarchismus ist umstritten. Die Anarchist FAQ schreibt dazu, dass der Anarchokapitalismus seinen Ursprung im Liberalismus, nicht im Anarchismus habe und die Geschichte der ökonomischen Ideen des Anarchismus ignoriere, die immer antikapitalistisch gewesen seien. Zwischen anarchokapitalistischen Theoretikern und der anarchistischen politischen Bewegung bestehe keine Verbindung.[19] Dagegen sieht Stefan Blankertz den Anarchismus allgemein als radikale Form des Liberalismus.[20] Neuere Ansätze Emma Goldman Die französische Variante des Anarchismus von 1968, der Situationismus, zeigte sich in der Studentenbewegung und den Mai-Unruhen. Forderungen waren unter anderem Abschaffung der Ware, der Arbeit, der Hierarchien, Aufhebung der Trennung zwischen Kunst und Leben. Der Anarchafeminismus ist eine Wortschöpfung der 1970er Jahre und vereint den Radikalfeminismus mit der anarchistischen Idee. Es gibt in der anarchistischen Bewegung schon Vorläufer, so hat Emma Goldman den Kampf um weibliche Gleichberechtigung mit dem um Herrschaftsfreiheit verbunden. Die Begriffssetzung Neo-Anarchismus beschreibt die historische Erscheinungsform im Zuge der 68er-Bewegung in Deutschland, in der der theoretische Anarchismus wiederentdeckt wurde und die Hierarchiefreiheit in progressiven und „linken“ Gruppen Einzug hielt. Öko-Anarchismus ist die Bezeichnung für die Verknüpfung von Ablehnung der Herrschaft von Menschen über Menschen mit der Ablehnung der Herrschaft des Menschen über die Natur. Eine bedeutende Strömung in Nordamerika ist der Primitivismus, der die Rückkehr zu vorindustriellen Formen des Wirtschaftens propagiert. „Folk-Anarchy“, auch der „kleines-a-Anarchismus“, sind in den USA entwickelte „postlinke“ anarchistische Strömungen. Diese Ansätze finden sich in Netzwerken wie CrimethInc. und der Curious George Brigade, die sich gegen nostalgische Theorie- und Personenbezüge richten und eine „Do it yourself“-Praxis (DIY) fordern: „eine Anarchie geschaffen von gewöhnlichen Menschen, die außergewöhnliche Leben leben, genannt Folk-Anarchy.“[21] Postanarchismus stellt keine einheitliche Theorie dar, sondern ist ein Sammelbegriff für postmoderne, postfeministische und poststrukturalistische Debatten aus anarchistischer Perspektive. Das Präfix „Post“ steht für eine Infragestellung und Verwerfung von einigen Grundannahmen des klassischen Anarchismus, nicht für ein Aufgeben anarchistischer Ziele. Das äußerst positive Menschen- und Weltbild des Anarchismus des 19. Jahrhunderts gilt dem Postanarchismus als überholt. Ihm zeigt sich Herrschaft als verändert und erweitert dar, der Ausbeutung wird die unterwerfende Subjektivierung zur Seite gestellt, der positive Machtbegriff Foucaults adaptiert. Der Postanarchismus beschäftigt sich zudem mit Postkolonialismus und Antirassismus.[22] Libertärer Kommunalismus[23] ist ein reformistisch orientierter praxisnaher Entwurf für demokratische Selbstverwaltung von Gemeinden auf der Basis von Ökologie, Freiwilligkeit und Föderalismus und wurde in den kurdischen Gebieten zur Zeit des syrischen Bürgerkriegs umgesetzt. Das englischsprachige begriffliche Pendant zu libertär, libertarian, bezeichnet seit den 1950er Jahren eine Verbindung von Anarchismus und Kapitalismus.[24] Geschichte Vorläufer → Hauptartikel: Vorläufer des Anarchismus Diogenes von Sinope auf einem Gemälde von John William Waterhouse. Diogenes gehörte zu den frühen Gesellschaftskritikern und predigte die Bedürfnislosigkeit als Grundlage der Freiheit. Der Historiker Peter Marshall bezeichnet den Daoismus als „ersten klaren Ausdruck anarchistischer Sensibilität“ und dessen Hauptwerk Daodejing von Laozi als „einen der größten anarchistischen Klassiker.“[25] Die Taoisten lehnten Regierungen ab und strebten ein Leben in natürlicher und spontaner Harmonie an, wobei der Einklang des Menschen mit der Natur eine bedeutende Rolle spielte. Der Daoismus entwickelte im Laufe der Zeit ein regelrechtes System politischer Ethik und verzichtete auf Kulte und die Ausbildung einer Priesterkaste. Der Daoismus war damit auch die wichtigste Gegenströmung zum autoritären und bürokratischen Konfuzianismus, der später zur chinesischen Staatsreligion wurde.[26] Erste Vorläufer des Anarchismus in Europa finden sich in der griechischen Philosophie der Antike. Der Historiker Max Nettlau sieht die bloße Existenz des Wortes „An-Archia“ als Beleg, „dass Personen vorhanden waren, die bewußt die Herrschaft, den Staat verwarfen.“[27] Ab dem 5. Jahrhundert vor unserer Zeitrechnung predigte Diogenes von Sinope (ca. 400 – 324 v. Chr.) die Rückkehr zum naturgemäßen Leben. Er und die Schüler der von ihm begründeten Schule der Kyniker sahen die ursprüngliche Bedürfnislosigkeit als erstrebenswerten Zustand. Soziale Harmonie würde laut den Kynikern anstelle von gegenseitigem Kampf und gesellschaftlichem Konflikt bestehen, da sich diese aus der Gier des Menschen nach materiellem Besitz und dem Streben nach Ehre ergeben.[28] In den Lehren von Zenon von Kition (ca. 333–262 v. Chr.) sieht der Historiker Georg Adler zum ersten Mal in der Weltgeschichte die Ideen des Anarchismus entwickelt.[29] Zenon, der Begründer der Stoa, war ein großer Kritiker von Platons Ideal einer Gesellschaft, die mit absoluter Staatsmacht zu einem moralischen Zusammenleben finden sollte. Zenon entwarf im Gegensatz zu Platon sein eigenes Ideal einer freien staatenlosen Gemeinschaft, die der Natur des Menschen besser entsprechen würde. Anstatt dem schriftlichen Gesetz zu folgen sollten die Menschen durch innere Einsicht ihren wahren natürlichen Trieben folgen. Dies würde die Menschen zur Liebe zum Mitmenschen und zur Gerechtigkeit führen. Wie in der äußeren Natur Eintracht, Harmonie und Gleichgewicht herrschen, so würde dies dann auch in der menschlichen Gesellschaft gelten. Daraus folgt die Negation des Gesetzes, der Gerichte, der Polizei, der Schule, der Ehe, des Geldes, der staatlichen Religion und des Staates. Über alle Völkergrenzen hinaus würde der Mensch in vollkommenster Gleichheit leben. Jeder sollte freiwillig gemäß seinen Fähigkeiten arbeiten und je nach Bedürfnis konsumieren dürfen.[29] Im späten Altertum und im Mittelalter gab es verschiedene verfolgte Sekten und Ketzer mit freiheitlichen Merkmalen. Anarchistische Elemente sind im Mittelalter jedoch erstmals beim Häretiker Amalrich von Bena und seinen Anhängern, den Amalrikanern, dokumentiert. Ähnliches gilt für die christlich-mystischen Brüder und Schwestern des freien Geistes im 12. und 13. Jahrhundert, die sich außerhalb der Gesellschaft und ihrer Gesetze stellten.[30] Zu den Vorläufern des Anarchismus wird Étienne de La Boétie (1530–1563) gezählt, der im Alter von 18 Jahren das grundlegende Werk Discours de la servitude volontaire ou le Contr'un (deutsch: Von der freiwilligen Knechtschaft oder das Gegen Einen [den Monarchen]) schrieb. Die Grundfrage des Discours de la servitude lautet: Woher kommt es, dass sich ein ganzes Volk von einem einzigen Menschen quälen, misshandeln und gegen seinen Willen leiten lässt. Monarchen stützen sich nicht nur auf Repression, um ihre Herrschaft zu erhalten. Viel wichtiger ist für Étienne de la Boétie der Fakt, dass sich die Untertanen freiwillig in ihre Knechtschaft ergeben und so erst dem einen Menschen die Macht übertragen. Würden also die Untertanen dem Monarchen ihren Dienst verweigern, hätte dieser wiederum keine Macht mehr. Eine Grundkritik des Anarchismus, das Herr-/Knechtschaftsverhältnis in der Gesellschaft, hat La Boétie erstmals für die Neuzeit formuliert.[31] Im Jahr 1649, einem Jahr großer sozialer Unruhen, entstand in England unter dem Einfluss von Gerrard Winstanley die religiös-anarchistische Bewegung der Diggers. Die bestehende gesellschaftliche Ordnung und die Herrschaft der Großgrundbesitzer versuchten die Diggers durch die Gründung kleiner, landwirtschaftlicher Kommunen auf egalitärer Basis aufzubrechen. Durch freiwilligen Zusammenschluss aller einfachen Leute sollten die Herrschenden ausgehungert werden, wenn sie sich nicht den Kommunen anschließen. Schon 1651 waren die Kolonien der gemeinschaftlich wirtschaftenden Dissidentengruppe durch Obrigkeit und lokale Grundbesitzer wieder zerstört. William Godwin war ein englischer Gelehrter und Kritiker der autoritären Entwicklung der Französischen Revolution. 1793 formulierte er in seinem Hauptwerk Enquiry concerning political justice, dass jedwede obrigkeitliche Gewalt als ein Eingriff in die private Urteilskraft anzusehen sei. Mit seinen Ideen hatte Godwin bereits nahezu alle wesentlichen Punkte der anarchistischen Theorie vorweggenommen.[32] Anarchismus versus Marxismus Illustration aus der französischen Ausgabe von Der Anarchismus von Kropotkin, 1913 Aus den Ideen der Aufklärung, verbunden mit den sich verstärkenden radikalen Strömungen des revolutionären Liberalismus seit der französischen Revolution von 1789 und verschiedenen frühsozialistischen Ansätzen, entwickelten sich die Vorstellungen des modernen Anarchismus etwa zeitgleich mit den kommunistischen Ideen von Weitling und Marx und zunehmend in gegenseitiger Abgrenzung voneinander. Die politischen Differenzen zwischen Kommunisten und Anarchisten führten zu historisch konfliktträchtigen Situationen in der Arbeiterbewegung und der politischen Linken insgesamt; Auseinandersetzungen, die bis in die Gegenwart andauern. Erst Pierre-Joseph Proudhon bezeichnet sich selbst als Anarchist und stellt die wesentlichen Elemente des Anarchismus in seinem Werk Qu’est-ce que la propriété? ou recherches sur le principe du droit et du gouvernement (1840) (dt.: Was ist das Eigentum? Untersuchungen über den Ursprung und die Grundlagen des Rechts und der Herrschaft) zusammen. Er formuliert: „Eigentum ist Diebstahl“,[33] wobei er unter Eigentum solches verstand, das die Voraussetzung für Einkommen ohne Arbeit ist. Damit stellte er Privateigentum an Produktionsmitteln, Mietshäusern, Wertpapieren und Ähnlichem ins Zentrum seiner Kritik an den herrschenden politischen und sozialen Verhältnissen im Kapitalismus. Dieses sei ebenso wie der bürgerliche Staat, der es schützen soll, direkt und unmittelbar zu bekämpfen und durch selbstorganisierte Formen des Gemeineigentums zu ersetzen. In einem Briefwechsel setzte sich Proudhon mit Karl Marx auseinander. Dabei stellte sich heraus, dass sie beide Themen wie Macht und Freiheit des Individuums oder die Rolle des Kollektivs als revolutionäres Subjekt sehr verschieden bewerteten. Proudhon argumentierte stärker mit philosophisch-ethischen Prinzipien, während Marx diese als bloß moralische Ideale kritisierte und eine wissenschaftliche Analyse der Widersprüche zwischen Kapital und Arbeit vermisste. Proudhons Anhänger Michail Bakunin (kollektivistischer Anarchismus) und später Pjotr Alexejewitsch Kropotkin (kommunistischer Anarchismus) verbanden seine Theorien mit der Agitation für eine soziale Revolution, die zur radikalen Umwälzung der Besitzverhältnisse notwendig sei. Bakunin lehnte die führende Rolle einer revolutionären Kaderpartei jedoch ebenso ab wie staatliche Hierarchien und verwarf damit Marx’ Forderung nach der Gründung kommunistischer Parteien ebenso wie die These von der „Diktatur des Proletariats“, die zur klassenlosen Gesellschaft führen solle. Er glaubte nicht, dass die Arbeiter zuerst die politische Staatsmacht erringen müssten, damit der Sozialismus aufgebaut und der Staat absterben könne, sondern wollte diesen direkt abschaffen. Diese Konzeption nannte er „antiautoritären Sozialismus“; ein Konzept, das von den Marxisten als „kleinbürgerlich-pseudorevolutionäre Ideologie“ abgelehnt wurde. Zwischen 1864 und 1872 waren Anarchisten und Marxisten in der noch aus einer Vielzahl politisch divergierender Gruppen der Arbeiterbewegung bestehenden Internationalen Arbeiterassoziation (IAA) organisiert. Als der ideologische Konflikt zwischen den Anhängern von Bakunin einerseits und denen von Marx andererseits eskaliert war, wurde Bakunin 1872 auf Betreiben von Marx aus der IAA ausgeschlossen. Der ideologische Konflikt, der 1876 zur Auflösung der IAA (heute auch unter der Bezeichnung „Erste Internationale“ bekannt) geführt hatte, markiert die erste grundlegende Zäsur in der Geschichte des Sozialismus und der internationalen Arbeiterbewegung – noch vor deren weiteren Aufspaltung am Wechsel vom 19. zum 20. Jahrhundert in einen reformorientierten (sozialdemokratischen) und einen revolutionären (kommunistischen) Flügel. Seit dem Auseinanderbrechen der IAA grenzen sich – Rudolf Rocker zufolge – Anarchisten in folgenden Punkten grundsätzlich vom Marxismus ab: Ablehnung der von Hegel geprägten marxistischen „Schicksalstheorien“. In der Geschichte gebe es überhaupt keine Zwangsläufigkeiten („historischen Notwendigkeiten“, „Zwangsläufigkeit des historischen Geschehens“), „sondern nur Zustände, die man duldet und die in Nichts versinken, sobald die Menschen ihre Ursachen durchschauen und sich dagegen auflehnen“ (Rocker). Ablehnung des „Historischen Materialismus“. Aus den wirtschaftlichen Verhältnissen könnte nicht alles „politische und soziale Geschehen“ erklärt werden. Der Anarchismus begreift die Menschen als handelnde Individuen, lehnt die Betrachtung von Menschen als Masse ab. Grundsätzliche Ablehnung eines Staates. Die Produktionsmittel von der Privatwirtschaft einem Staat zu übergeben, „führt lediglich zu einer Diktatur durch den Staat“ (Rocker). Ablehnung von Gesetzen und Gesetzgebern. Entscheidungen werden dezentral, kollektiv und im Konsens entschieden. „Nur das freie Übereinkommen, ‚könnte‘ das einzige moralische Band aller gesellschaftlichen Beziehungen der Menschen untereinander sein“ (Rocker). Ablehnung einer Übergangsphase vom Kapitalismus zum Sozialismus. Der „Wille zur Macht“ müsse in einer freien Gesellschaft grundsätzlich bekämpft werden. radikale Ablehnung aller kapitalistisch geprägten Begriffe: Sämtliche Wertbegriffe, wie wir sie heute kennen, sind samt und sonders kapitalistische Begriffe. Luft, Sonnenlicht, Regen, Erdfeuchtigkeit, Humus, kurz, viele der wichtigsten Produktionsfaktoren sind, weil sie nicht monopolisiert werden konnten, heute kapitalistisch wertlos. (…) Mit dem Aufhören des Eigentumsbegriffes an Produktionsmitteln hört auch jeder Wertbegriff für den einzelnen auf. (Pierre Ramus, Franz Barwich) Einzelne Vertreter bezweifeln ebenfalls das Konzept der sozialen Klasse wie Errico Malatesta auf dem Kongress in Amsterdam. Die Propaganda der Tat Der französische Anarchist Ravachol war ein Verfechter der Propaganda der Tat durch Gewalt: Als Rache für getötete Demonstranten verübte er Bombenanschläge und wurde dafür guillotiniert. → Hauptartikel: Propaganda der Tat Ab den späten 1870er Jahren wurden anarchistische Aktionen und Taten mit Vorbildcharakter als Propaganda der Tat bezeichnet. Sie sollten die Gesellschaft „aufwecken“ und in der Bevölkerung Sympathien schaffen, um somit als Mittel für politische und soziale Veränderung zu dienen. Durch die relative Häufung von Attentaten zum Ende des 19. Jahrhunderts in verschiedenen Ländern kam es in der öffentlichen Meinung zu einer Reduktion des Anarchismus auf Terroranschläge, eine bis heute verbreitete Ansicht. Zu den publizistischen Unterstützern der Anschläge durch die Narodniki auf Zar Alexander II. zählten beispielsweise auch einzelne sozialdemokratische Politiker im Deutschen Reich wie Wilhelm Hasselmann und Johann Most. Durch den 1880 erfolgten Ausschluss dieser beiden Protagonisten der sozialrevolutionär-anarchistischen Fraktion der SPD-Vorläuferpartei SAP versuchte die deutsche Sozialdemokratie, sich während der Geltungsdauer des repressiven Sozialistengesetzes ihres tendenziell anarchistischen Flügels zu entledigen. Hasselmann und Most, die beispielsweise in der in London herausgegebenen und illegal im Deutschen Kaiserreich verbreiteten zunächst sozialdemokratischen, dann anarchistischen Zeitschrift Freiheit auch zu offener Gewalt gegen die antisozialistische Unterdrückungspraxis der deutschen Regierung unter Reichskanzler Otto von Bismarck aufgerufen und der SAP-Führung eine zu gemäßigte Haltung in ihrer bloß verbalen Systemopposition vorgeworfen hatten, setzten nach ihrem Parteiausschluss ihre sozialrevolutionäre Agitation im US-amerikanischen Exil fort. Schon einige Jahre zuvor hatten symbolträchtige Anschläge auf Kaiser Wilhelm I. und die Könige von Spanien und Italien stattgefunden. Am 24. Juni 1894 aber tötete der junge italienische Einwanderer Sante Geronimo Caserio, der dem anarchistischen Umfeld zuzurechnen war, den französischen Präsidenten Carnot. Dies war der Höhepunkt einer ganzen Serie von anarchistisch motivierten Anschlägen in Frankreich. Am 10. September 1898 erstach Luigi Lucheni in Genf Kaiserin Elisabeth (Sisi). Am 6. September 1901 schoss Leon Czolgosz in Buffalo (New York) auf den US-Präsidenten William McKinley; dieser starb acht Tage später. Die 1890er Jahre wurden als ein „Jahrzehnt der Bomben“ bezeichnet. Mit Dynamit – einer damals neuen Erfindung – wurden Anschläge verübt gegen Monarchen, Präsidenten, Minister, Polizeichefs, Polizisten und gegen Richter, die Anarchisten verurteilt hatten. Andere trafen offizielle Gebäude. Die gewaltsamen Anschläge und Attentate gegen Ende des 19. Jahrhunderts, von Peter Kropotkin anlässlich eines internationalen revolutionären Kongresses 1881 in London als kontraproduktiv oder ineffektiv bezeichnet, wurden zunehmend auch von anderen Anarchisten abgelehnt. Frühes 20. Jahrhundert Anarchisten spielten in vielen Arbeiterbewegungen, Aufständen und Revolutionen des 19. und 20. Jahrhunderts eine Rolle. Dazu gehören etwa die Mexikanische Revolution von 1910 bis 1919 mit der Bauernarmee unter Führung von Emiliano Zapata, die Oktoberrevolution 1917 in Russland und die nach ihrem Anführer Nestor Machno benannte Bauern- und Partisanenbewegung, der Machnowzi zwischen 1917 und 1921 in der Ukraine; auch in der kurzlebigen Münchner Räterepublik von 1919 waren zeitweise Anarchisten wie Gustav Landauer und der Dichter Erich Mühsam an der Räteregierung beteiligt. Die 1922 gegründete anarchosyndikalistische Internationale ArbeiterInnen-Assoziation (IAA) ist heute noch in vielen Ländern Amerikas und Europas in Arbeitskämpfen aktiv. Im frühen 20. Jahrhundert wurden Anarchistengruppen in Russland von den kommunistischen Bolschewiki verdrängt und fielen gegen Ende der russischen Revolution Säuberungsaktionen zum Opfer (Niederschlagung des Aufstandes in Kronstadt und der anarchistischen Bauernbewegung Machnowschtschina). Spanische Republik → Hauptartikel: Anarchismus in Spanien Fahne der CNT-FAI Im Spanischen Bürgerkrieg, der in den Jahren von Juni 1936 bis April 1939 zwischen verschiedenen Gruppen der Republikaner und der faschistischen Bewegung unter General Franco stattfand, wirkte der Anarchismus bisher am stärksten. Insbesondere die mitgliederstarke und einflussreiche anarchosyndikalistische Gewerkschaft Confederación Nacional del Trabajo (CNT) kontrollierte mit ihrem militanten Arm, der anarchistischen Federación Anarquista Ibérica (FAI), große Teile des östlichen Spaniens. Deutschland während der NS-Diktatur Während des nationalsozialistischen Regimes war eine legale politische Tätigkeit von Anarchisten in Deutschland nicht möglich. Bereits kurz nach der Machtergreifung Hitlers wurden ab 1933 prominente Wortführer der Anarchisten in Konzentrationslager verbracht. Viele von ihnen wurden ermordet, wie beispielsweise der Dichter und Publizist Erich Mühsam. Junge und weniger bekannte Aktivisten versuchten noch mit den Schwarzen Scharen antifaschistische Widerstandsgruppen zu organisieren, wurden aber von der Gestapo ausgehoben. Ein Großteil emigrierte. Viele der emigrierten deutschen Anarchisten, darunter etwa Augustin Souchy, schlossen sich ab 1936 in Spanien während des dortigen Bürgerkriegs dem Kampf der Internationalen Brigaden auf der Seite der CNT/FAI gegen Franco an. Hunderte von in Deutschland verbliebenen Anarchisten wurden in „Schutzhaft“ genommen, in Schauprozessen verurteilt und in Konzentrationslager verbracht, von wo einige zum Ende des Zweiten Weltkriegs etwa in die SS-Sondereinheit Dirlewanger gepresst wurden.[34] Nachkriegszeit → Hauptartikel: Anarchismus in Deutschland Deutsche Demokratische Republik Kurzzeitig kam es unter sowjetischer Besatzungsmacht zum Wiederaufleben des Anarchismus, vor allem durch syndikalistische Arbeiter. Nach dem Krieg hatte sich um Wilhelm Jelinek in Zwickau ein neuer Kreis von freiheitlich gesinnten Personen gebildet. Jelinek war Betriebsratsvorsitzender eines großen Industriebetriebes. Dieser Kreis verschickte Rundbriefe an mindestens 18 verschiedene Orte in der sowjetischen Zone und unterhielt auch Korrespondenzen mit Anarchisten in anderen Zonen Deutschlands. Es gelang ihm durch mündliche und briefliche Agitation, ein weitmaschiges Netz über die gesamte Ostzone und spätere DDR zu spannen.[35] „In Zwickau wurde, so unglaublich es klingt, eine Informationsstelle des gesamtdeutschen Anarchismus gebildet. Sie berief Mitte 1948 nach Leipzig eine geheime Konferenz aller unter sowjetischer Besatzungsmacht lebenden Antiautoritären verschiedener Richtungen ein.“ Zirkulare des Zwickauer Kreises fielen den Staatsorganen in die Hände. Der Staatssicherheitsdienst wurde aufmerksam und verhaftete alle Teilnehmer. Nach Kriegsende bis zur gesprengten Tagung 1948 waren die anarchistischen Gruppierungen in der Sowjetischen Besatzungszone so stark, dass sie sogar die westdeutschen Anarchisten mit einer Vervielfältigungsmaschine und Geld unterstützen konnten.[36] Von einigen Orten aus dem Gebiet der DDR ist bekannt, dass einige ehemalige Mitglieder der FAUD sich der SED anschlossen, die zumeist in den 1950er Jahren wieder „hinausgesäubert“ wurden.[37] Bis zur Wende beschränkten sich anarchistische Aktivitäten auf die Herausgabe von Flugblättern und einigen Zeitschriften.[38] Bundesrepublik Deutschland Mit der Studentenbewegung Ende der 60er Jahre stieg das öffentliche Interesse am Anarchismus. Innerhalb der Studentenbewegung gab es eine anarchistische Strömung. Auch im Sozialistischen Deutschen Studentenbund (SDS), der sich zum Sammelbecken der gesamten Bewegung entwickelte, waren Anarchisten vertreten. Des Weiteren hatte der Anarchismus für die Neuen sozialen Bewegungen (NSB) eine theoretische und praktische Bedeutung. Innerhalb der Autonomen, als linksradikalem Flügel der NSB, gab und gibt es eine große libertäre Strömung. Ein bundesweit organisiertes Bündnis anarchopazifistisch dominierter Bezugsgruppen war die von 1980 bis in die 1990er bestehende Föderation Gewaltfreier Aktionsgruppen (FöGA), die über Jahre hinweg die bis in die Gegenwart erscheinende Zeitschrift Graswurzelrevolution herausgab. 1989 gründete sich die „Initiative für eine anarchistische Föderation in Deutschland“ (I-AFD).[39] Sie überstand die Jahrtausendwende und ist später im „Forum deutschsprachiger Anarchistinnen und Anarchisten“ (seit 2013 Föderation deutschsprachiger Anarchist*innen) aufgegangen. Im frühen 21. Jahrhundert haben sich mehrere Ortsgruppen der Anarchistisch-Syndikalistischen Jugend gebildet. Zeitweilig, insbesondere in den 1970er Jahren, wurde vor allem in den Massenmedien die Rote Armee Fraktion (RAF) neben anderen ähnlich agierenden, dem Linksterrorismus zugeordneten Gruppierungen ebenfalls als „anarchistisch“ bezeichnet. Diese Zuordnung beruhte jedoch auf einem inhaltlich falschen bzw. in der Praxis verengten Verständnis des Anarchismus. Sie besetzte das in der Gesellschaft verbreitete, polarisierende und nicht näher spezifizierte Schlagwort Anarchie im Sinne von Anomie. Die RAF, die ihre Aktionen und Anschläge aus einem marxistisch-leninistischen Verständnis des Antiimperialismus heraus begründete, hatte selbst inhaltlich keinen anarchistischen Bezugsrahmen. Die fälschliche Fremdzuschreibung als „anarchistisch“ beruhte vor allem auf ihrer extremen Militanz, mit der ihre wesentlichen Akteure bis zur tödlichen Konsequenz für andere und sich selbst gegen Symbolfiguren der herrschenden staatlichen und ökonomischen Strukturen aus Politik, Wirtschaft und Justiz vorgingen. Deutsche Verfassungsschutzbehörden ordnen den Anarchismus mit der Begründung, er strebe eine „staats- und herrschaftsfreie Gesellschaftsordnung“ an, unter dem Begriff des Linksextremismus ein, etwa im Verfassungsschutzbericht des Bundes von 2012.[40] International In Europa und den Amerikas rekonstituierten sich die überregionalen Anarchistischen Föderationen und schlossen sich 1968 zur Internationale der Anarchistischen Föderationen zusammen. In den USA und Großbritannien entstand Ende der 1970er-Jahre der Punk als anarchistisch geprägte Subkultur. Vor allem die Mitglieder der Band Crass sind hier als engagierte Anarchisten und Pazifisten zu nennen. Nach dem Zerfall der zentralistischen Staaten des Warschauer Pakts haben sich dort weitere anarchistische Föderationen gebildet, die teilweise der Internationale beigetreten sind. Seit etwa Mitte der 1990er Jahre gibt es internationale Libertäre Buchmessen in mehr als zehn Ländern. Anarchismus in der Gegenwart Scheiss auf die Wahlen, gegen jede Repräsentation, gegen jede Autorität, für Eigenverantwortung und Autonomie, für die Anarchie. Plakat in Wien, 2016 Ein zeitgenössisches Plakat in griechischer Sprache. "Ihr erhebt euch also erneut! Sie schafften es nicht, euch auf die Knie zu zwingen. Der Geist, der euch dazu antreibt, den Staat und jede Herrschaft zu zerstören, ist nicht das Resultat irgendeines pubertären Triebs, sondern Äußerung einer natürlichen LEIDENSCHAFT für FREIHEIT, die aus den Tiefen eurer Seele entspringt." M. Bakunin Es gibt auf der ganzen Welt lokale anarchistische Gruppen, die verschiedene Strömungen propagieren und unterschiedlich organisiert sind. Die Bandbreite der Aktivitäten reicht von Herausgabe von Zeitungen über die Umsetzung direkter Aktionen bis zu anarchistischen Wohn- und Arbeitskollektiven. Der politische Einfluss ist in der Regel begrenzt. Der Anarchismus in den Niederlanden wurde Mitte der 1960er Jahre mit der Provo-Bewegung wieder aktuell. Nach der Wirtschaftskrise in Argentinien im Jahre 2000 wurden einige hundert, zumeist peronistisch ausgerichtete Betriebe in Selbstverwaltung gestellt, die allerdings am normalen weltwirtschaftlichen Geschehen teilnehmen und nur einen eingeschränkt mutualistischen Ansatz verfolgen.[41] Ebenso gelten die Autonomen- und Punk-, insbesondere Anarcho-Punk-Szenen als stark vom Anarchismus beeinflusst. Die Hausbesetzer- und Umsonstladenbewegungen gelten ebenfalls als anarchistisch inspiriert. Zu Beginn des 3. Jahrtausends adaptierte die kurdische Bewegung in Form des demokratischen Konföderalismus eine zeitgenössische, pragmatische Form der ökologischen und demokratischen Selbstverwaltung aus anarchistischen Diskursen. Organisationen An bedeutenden internationalen Gruppierungen sind die Internationale der Anarchistischen Föderationen (IFA) und die internationale anarchistische Gefangenenhilfsorganisation Anarchist Black Cross (ABC) zu erwähnen. Weltweit gibt es mehrere hundert anarchistische Basisorganisationen und libertäre Gruppen, die sich in lokalen Organisationen organisieren. In Deutschland war die Föderation freiheitlicher Sozialisten (1947 bis um 1970; Nachfolgeorganisation der FAUD) die größte Organisation nach dem Zweiten Weltkrieg, heute ist die anarchosyndikalistische Gewerkschaft Freie Arbeiterinnen- und Arbeiter-Union (FAU) Mitglied der Internationalen Konföderation der Arbeiter*innen (IKA). Die Föderation deutschsprachiger Anarchist*innen (FdA), 2003 gegründete Nachfolgeorganisation der 1989 ins Leben gerufenen Initiative zum Aufbau einer Anarchistischen Föderation in Deutschland, ist in der IFA assoziiert. Seit 2009 existieren mehrere Ortsgruppen der Anarcho-Syndikalistischen Jugend. 2019 gründete sich die plattform – anarchakommunistische Organisation, welche sich auf das Organisationsprinzip des Plattformismus beruft. Periodika Die wichtigsten deutschsprachigen Periodika sind die „Direkte Aktion“ der Anarchosyndikalistischen Organisation FAU-IAA, die sich vom Print-zum digitalen Medium gewandelt hat[42], die anarcho-pazifistische „Graswurzelrevolution“ und ihre auch gesondert erscheinende Beilage „Utopia“, welche 2011 eingestellt wurde. Seit 2015 erscheint halbjährlich Ne znam, eine Zeitschrift für Anarchismusforschung.[43] Die Föderation deutschsprachiger Anarchist*innen veröffentlicht seit 2011 monatlich das Magazin „Gǎidào“.[44] Der vierteljährlich erschienene „Schwarze Faden“[45] ist seit 2004 eingestellt. In Berlin erschien die englischsprachige Zeitschrift „Abolishing the Borders from Below“ von 2001 bis 2010. Zum anarchistischen Umfeld werden die Selbstorganisationszeitschrift „Contraste“ und das ökologisch orientierte „Grüne Blatt“ gerechnet. Mittlerweile eingestellt wurde „Die Aktion“. Die Organisation Socialiste Libertaire gibt die „Rébéllion“[46] in deutscher und französischer Sprache heraus. Anarchistische beziehungsweise anarchosyndikalistische Wochenzeitungen erscheinen mit „Umanità Nova“ in Italien, „le monde libertaire“ in Frankreich und „Arbetaren“ in Schweden. Siehe auch: Liste anarchistischer Zeitschriften Aktionsformen Der Anarchismus ist bestrebt, direkt sozial oder politisch zu handeln. Gewaltlosigkeit sei idealerweise das Ziel einer Anarchie.[47] Aus diesem Ansatz leiten sich verschiedene Aktionsformen ab, wie zum Beispiel der in der Regel gewaltlose zivile Ungehorsam oder die Direkte Aktion, also Streik, Generalstreik, Sabotage, Betriebs- und Hausbesetzung und militante Aktionen. Die Grenze zwischen Gewalt und Gewaltlosigkeit in der Anarchie wird an „Notwendigkeiten“ festgemacht: „Die wahre anarchistische Gewalt hört auf, wo die Notwendigkeit der Verteidigung und der Befreiung aufhört“ schrieb Errico Malatesta, ein bedeutender Aktivist und Wortführer der italienischen Anarchisten, 1924 zur Zeit der faschistischen Diktatur in Italien.[47] Für die Errichtung und Aufrechterhaltung einer Anarchie wurde Gegengewalt im frühen 20. Jahrhundert weithin als legitimes Mittel gegen Herrschaft erachtet.[47] Im 19. und frühen 20. Jahrhundert war die Propaganda der Tat eine weitverbreitete Aktionsform, mit der anarchistische Ideen durch Aktionen mit Vorbildcharakter verbreitet werden sollten. Die Aktionsform wurde vor allem durch Anschläge auf exponierte Führungspersönlichkeiten aus Wirtschaft und Politik bekannt. In den Revolutionen des 19. und 20. Jahrhunderts spielten Anarchisten eine Rolle und waren zum Beispiel als Partisanenbewegungen, wie die Machnowzi während des russischen Bürgerkrieges, auch von militärischer Bedeutung. Im späten 20. Jahrhundert sind neue Formen wie Kommunikationsguerilla, schwarzer Block, Clownarmee und Guerilla Gardening hinzugekommen. Symbole → Hauptartikel: Anarchistische Symbolik Die Symbole des Anarchismus umfassen eine Vielzahl von Zeichen. Am häufigsten werden das A im Kreis, eine schwarze oder diagonal schwarz geteilte Fahne und der schwarze Stern verwendet. Siehe auch Portal Portal: Anarchismus – Übersicht zu Wikipedia-Inhalten zum Thema Anarchismus Liste bekannter Anarchisten Anarchismus in Kuba Anarchismus in der Türkei Anarchismus in den Vereinigten Staaten Anarchismus in Japan Anarchismus in Korea Literatur Einführungen Autorenkollektiv: Was ist eigentlich Anarchie. Einführung in die Theorie und Geschichte des Anarchismus. 2. überarbeitete Auflage. Kramer, Berlin 1997, ISBN 3-87956-700-X. Achim von Borries, Ingeborg Brandies (Hrsg.): Anarchismus. Theorie, Kritik, Utopie. Texte und Kommentare. Verlag Graswurzelrevolution, Nettersheim 2007, ISBN 978-3-939045-00-7. Jan Cattepoel: Der Anarchismus. Gestalten, Geschichte, Probleme. 3. überarbeitete und erweiterte Auflage. Beck, München 1979, ISBN 3-406-06786-7. Hans J. Degen, Jochen Knoblauch: Anarchismus. Eine Einführung. Schmetterling Verlag, Stuttgart 2008, ISBN 978-3-89657-590-6. Andreas G. Graf (Hrsg.), Anarchisten gegen Hitler. Anarchisten, Anarcho-Syndikalisten, Rätekommunisten in Widerstand und Exil. Berlin: Lukas-Verlag 2001, ISBN 3-931836-23-1 Monika Grosche: Anarchismus und Revolution. Zum Verständnis gesellschaftlicher Umgestaltung bei den anarchistischen Klassikern Proudhon, Bakunin, Kropotkin. Syndikat A, Moers 2004, ISBN 3-00-011749-0. Daniel Guérin: Anarchismus. Begriff und Praxis. edition suhrkamp, Frankfurt/M. 1967, ISBN 3-518-10240-0. Philippe Kellermann (Hrsg.): Anarchismus und Geschlechterverhältnisse. Band 1. Verlag Edition AV, Lich 2016, ISBN 978-3-86841-139-3. Daniel Loick: Anarchismus zur Einführung. Junius, Hamburg 2017, ISBN 978-3-88506-768-9. Cindy Milstein: Der Anarchismus und seine Ideale. Unrast Verlag, Münster 2013, ISBN 978-3-89771-533-2. Erwin Oberländer (Hrsg.): Der Anarchismus. Walter, Olten/Freiburg 1972, ISBN 3-530-16784-3. Roland Raasch, Hans Jürgen Degen (Hrsg.): Die richtige Idee für eine falsche Welt? Perspektiven der Anarchie. Oppo-Verlag, Berlin 2002, ISBN 3-926880-12-0. K. H. Z. Solneman: Das Manifest der Freiheit und des Friedens. Der Gegenpol zum kommunistischen Manifest. Mackay-Gesellschaft, Freiburg 1977, ISBN 3-921388-12-0. Horst Stowasser: Anarchie! Idee, Geschichte, Perspektiven. Edition Nautilus, Hamburg 2007, ISBN 978-3-89401-537-4. (Vorläuferband als PDF; 3,01 MB) Uwe Timm: Anarchie, eine konsequente Entscheidung für Freiheit und Wohlstand. Mackay-Gesellschaft, Freiburg 1976, ISBN 3-921388-10-4. Klassiker Pierre-Joseph Proudhon: Système des contradictions économiques ou Philosophie de la misère. 1846 System der ökonomischen Widersprüche oder: Philosophie des Elends. Kramer, Berlin 2003, ISBN 3-87956-281-4. Michail Bakunin: Dieu et l’état. 1882 (1871 verfasst) Gott und der Staat. Kramer, Berlin 1995, ISBN 3-87956-222-9. Peter Kropotkin: La Conquête du Pain. 1892 Die Eroberung des Brotes. Edition Anares, Bern 1989, ISBN 3-922209-08-4. Gustav Landauer: Aufruf zum Sozialismus. 1911; Oppo-Verlag, Berlin 1997, ISBN 3-926880-11-2. Alexander Berkman: What is communist anarchism? 1929 ABC des Anarchismus. Trotzdem-Verlag, Grafenau 1999, ISBN 3-931786-00-5. Erich Mühsam: Die Befreiung der Gesellschaft vom Staat. Was ist kommunistischer Anarchismus? 1932; Kramer, Berlin 2005, ISBN 3-87956-276-8, Volltext auf Wikisource Max Nettlau: Geschichte der Anarchie. 3 Bände Der Vorfrühling der Anarchie. Ihre historische Entwicklung von den Anfängen bis zum Jahre 1864. Verlag Der Syndikalist, Berlin 1925; Bibliothek Thélème, Münster 1993, ISBN 3-930819-02-3. Der Anarchismus von Proudhon zu Kropotkin. Seine historische Entwicklung in den Jahren 1859–1880. Verlag Der Syndikalist, Berlin 1927; Bibliothek Thélème, Münster 1993, ISBN 3-930819-04-X. Anarchisten und Sozialrevolutionäre. Die historische Entwicklung des Anarchismus in den Jahren 1880–1886. Asy-Verlag, Berlin 1931; Bibliothek Thélème, Münster 1996, ISBN 3-930819-06-6. John Henry Mackay: Die Anarchisten. Kulturgemälde aus dem Ende des XIX. Jahrhunderts. 1891; Mackay-Gesellschaft, Freiburg 1976, ISBN 3-921388-08-2. Moderne Ansätze Murray Bookchin: Remaking Society. 1989 Die Neugestaltung der Gesellschaft. Pfade in eine ökologische Zukunft. Trotzdem-Verlag, Grafenau 1992, ISBN 3-922209-35-1 (PDF; 0,5 MB) Ralf Burnicki: Anarchie als Direktdemokratie. Selbstverwaltung, Antistaatlichkeit. Eine Einführung in den Gegenstand der Anarchie. Syndikat A Medienvertrieb, Moers 1998, ISBN 3-00-002097-7 Rolf Cantzen: Weniger Staat – mehr Gesellschaft. Freiheit – Ökologie – Anarchismus. Fischer-Taschenbuch-Verlag, Frankfurt 1987, ISBN 3-596-24175-8; Trotzdem-Verlag, Grafenau 1995, ISBN 3-922209-81-5 Curious George Brigade, Crimethinc, Co-Conspirators: DIY. Von Anarchie und Dinosauriern. Unrast, Münster 2006, ISBN 3-89771-444-2 Bernd Drücke (Hrsg.): Ja! Anarchismus! Gelebte Utopie im 21. Jahrhundert. Interviews und Gespräche. Karin Kramer Verlag, Berlin 2006, ISBN 3-87956-307-1 Bernd Drücke (Hrsg.): Anarchismus Hoch 2. Soziale Bewegung, Utopie, Realität, Zukunft. Karin Kramer Verlag, Berlin 2014, ISBN 978-3-87956-375-3 Gruppe Gegenbilder (Hrsg.): Autonomie & Kooperation. Projektwerkstatt, Reiskirchen-Saasen 2005, ISBN 978-3-86747-001-8 Gruppe Gegenbilder (Hrsg., überarbeitet von Jörg Bergstedt): Freie Menschen in freien Vereinbarungen, Reiskirchen-Saasen 2012, ISBN 978-3-86747-005-6 Graswurzelrevolution (Hrsg.): Gewaltfreier Anarchismus. Herausforderungen und Perspektiven zur Jahrhundertwende. Verlag Graswurzelrevolution, Heidelberg 1999, ISBN 3-9806353-1-7 Wolfgang Haug & Michael Wilk: Der Malstrom. Aspekte anarchistischer Staatskritik. Trotzdem Verlag, Grafenau 1995, ISBN 3-922209-82-3 Gabriel Kuhn: Vielfalt – Bewegung – Widerstand. Texte zum Anarchismus Unrast Verlag, Münster 2009 ISBN 978-3-89771-497-7 Gabriel Kuhn: Anarchismus und Revolution. Gespräche und Aufsätze. Unrast Verlag, Münster 2017, ISBN 978-3-89771-226-3 Christine Magerski und David Roberts: Kulturrebellen. Studien zur anarchistischen Moderne. Wiesbaden: Springer VS 2019 ISBN 978-3-658-22274-1 Jürgen Mümken: Freiheit, Individualität und Subjektivität. Staat und Subjekt in der Postmoderne aus anarchistischer Perspektive. Verlag Edition AV, Frankfurt 2003, ISBN 3-936049-12-2 Michael Wilk: Macht, Herrschaft, Emanzipation. Aspekte anarchistischer Staatskritik. Trotzdem Verlag, Grafenau 1999, ISBN 3-931786-16-1 (michael-wilk.info [PDF; abgerufen am 28. Juli 2017]). Kritik am Anarchismus Wolfgang Harich: Zur Kritik der revolutionären Ungeduld. Eine Abrechnung mit dem alten und dem neuen Anarchismus. Verlag 8. Mai, Berlin 1998. ISBN 3-931745-06-6 Ute Nicolaus: Souverän und Märtyrer. Verlag Königshausen & Neumann. Reihe Literaturwissenschaft. Band 506. S. 39, 40. Florens Christian Rang: Kritik am Anarchismus: Das Problem der Gewalt. ISBN 3-8260-2789-2 C. Roland Hoffmann-Negulescu: Anarchie, Minimalstaat, Weltstaat. Kritik der libertären Rechts- und Staatstheorie. Kapitel IV., Anarchie, Staat und Utopie. S. 83. Tectum Verlag, Marburg 2011. ISBN 3-8288-8303-6 Syndikalismus ist eine Weiterentwicklung des Gewerkschafts-Sozialismus, die von dem französischen Anarchisten Pierre-Joseph Proudhon begründet wurde. Der Syndikalismus propagiert die Aneignung von Produktionsmitteln durch die Gewerkschaften, die dann auch an Stelle politischer Stellvertreter die Verwaltung organisieren. Dabei bilden Streik, Boykott und Sabotage die Mittel der Syndikalisten; parlamentarische Bestrebungen werden abgelehnt. Inhaltsverzeichnis 1 Idee 2 Syndikalismus in Deutschland 3 Die Organisation der Lokalisten 4 Vom Lokalismus zum Syndikalismus 5 Die weitere programmatische Ausrichtung des Syndikalismus 6 Der Syndikalismus zur Zeit des Ersten Weltkriegs in Deutschland 7 Syndikalismus und Anarcho-Syndikalismus in Deutschland nach dem Ersten Weltkrieg 8 Die Internationale Arbeiter-Assoziation (IAA) 9 Syndikalismus: Zum Gebrauch des Begriffs 10 Siehe auch 11 Literatur 12 Weblinks 13 Einzelnachweise Idee Die nach föderalistischen Prinzipien aufgebaute Gewerkschaft solle mittels eines Generalstreiks die Produktionsmittel in die Obhut der Arbeiterschaft führen. Der Zusammenschluss (Syndikat) der Produktionseinheiten würde die ökonomische Basis einer neuen Gesellschaft in Selbstverwaltung bilden. Der bedeutendste Ideengeber und Vertreter der syndikalistischen Arbeiterbewegung fand sich in der Person von Fernand Pelloutier. Ein wichtiges strukturbildendes Element stellte die Arbeiterbörse dar. Der Syndikalismus war Anfang des 20. Jahrhunderts besonders in Frankreich in Gewerkschaftskreisen verbreitet, etwa in Form der Charta von Amiens von 1906, wurde jedoch nach Ende des Ersten Weltkrieges von marxistischen Strömungen (vor allem dem Kommunismus) verdrängt und zudem vom Faschismus bekämpft. Nach dem Ende des Spanischen Bürgerkriegs 1939 war der Syndikalismus praktisch verschwunden. Erweitert und im Wesenskern ergänzt um weltanschauliche und philosophische Elemente des Anarchismus formte sich der Anarchosyndikalismus. In Spanien erreichte die anarchosyndikalistische Gewerkschaft Confederación Nacional del Trabajo (CNT) im ersten Drittel des 20. Jahrhunderts eine breite Anhängerschaft von etwa zwei Millionen Mitgliedern und gehörte zu den bedeutenden Faktoren der spanischen Politik. Die CNT sympathisierte zeitweise mit der Russischen Revolution und trat 1919 der III. Internationale (Komintern) bei. Nach 1921 vertrat jedoch nur noch eine Minderheit der kommunistischen Syndikalisten die Verbindung mit der Russischen Revolution, auch international dominierte Kritik gegenüber dem sich autoritär entwickelnden Sowjetstaat.[1] In Deutschland trennten sich um 1921 die sich anfangs noch stark überlappenden Milieus syndikalistischer und kommunistischer Gewerkschaften. Konsequenterweise gründete sich 1922 ein eigener internationaler Zusammenschluss anarcho-syndikalistischer Gewerkschaften, die Internationale ArbeiterInnen-Assoziation (IAA). Syndikalismus in Deutschland Die Geschichte in Deutschland wurde zunächst durch den Begriff des „Lokalismus“ geprägt. Dieser bezeichnet dabei gleichzeitig die Herkunft und die Motivation der (anarcho-)syndikalistischen Bewegung. Sie entstammte der Sozialdemokratie und wandte sich im Zuge der Verhältnisse unter den sogenannten „Sozialistengesetzen“ (1878–1890) einem föderalistischen Gewerkschaftsmodell zu, in welchem die Ortsvereine Souverän ihrer Entscheidungen blieben und sich keiner Zentralinstanz unterordnen mussten. Das lag darin begründet, dass die regionalen Vereinsgesetze oftmals nur lokale Vereinigungen zuließen, und zum anderen daran, dass die „Lokalisten“ die zentralistische Organisationsform als anfälliger für Repressions- und Korruptionsmaßnahmen ansahen. Des Weiteren kritisierten sie die Tendenz, die Aufgaben der Gewerkschaften lediglich auf die Tagesfragen nach höheren Löhnen und besseren Arbeitsbedingungen festzulegen. Der Klassenkampf der Arbeiterklasse solle nicht die alleinige Aufgabe der sozialdemokratischen Partei sein. Hier lag der Keim für die weitere Ausformung des (Anarcho-)Syndikalismus begründet, die Gewerkschaften gleichermaßen als ökonomische, politische und kulturelle Bewegung anzusehen und auszurichten. Die Organisation der Lokalisten Nach dem Ende der „Sozialistengesetze“ im Jahre 1890 und weiteren Zentralisierungstendenzen auf dem Kongress von Halberstadt 1892 entstand innerhalb der sozialdemokratischen Gewerkschaftsbewegung eine Opposition zur „Generalkommission für die Zentralverbände“, welche sich dieser Entwicklung verweigerte und sich auf Reichsebene im Jahre 1897 als „Vertrauensmänner-Zentralisation Deutschlands“ bzw. „Zusammenschluss der lokalorganisierten oder auf Grund des Vertrauensmännersystems zentralisierten Gewerkschaften Deutschlands“ organisierte. Bis zum Kriegsausbruch im Jahre 1914 hielt die 1901 in „Freie Vereinigung deutscher Gewerkschaften“ (FVDG) umbenannte Organisation 11 Reichskongresse ab. Besonderen Anklang fand sie bei den Berufsvereinigungen der Bauarbeiter mit Zentrum in Berlin. Insgesamt vereinigte sie bis zum Ersten Weltkrieg bis zu 20.000 Mitglieder. Die organisatorischen Köpfe fanden sich in Fritz Kater, Gustav Keßler, Andreas Kleinlein und Carl Thieme, welche sowohl die Geschäftskommission stellten, als auch seit 1897 für das zentrale Organ Die Einigkeit verantwortlich waren, welches in einer Auflage von 10.000 zweiwöchentlich erschien. Außerdem war Fritz Kater Verleger und Herausgeber der Zeitschrift Der Syndikalist. Vom Lokalismus zum Syndikalismus Um die Jahrhundertwende bestand die Bewegung aus revolutionären Sozialdemokraten und Parteimitgliedern, doch ging die Partei in den Jahren ab 1902 verstärkt dazu über, die lokalistische Bewegung und ihr Programm der „Propaganda für die Idee des Massen- resp. Generalstreiks“ offensiv zu bekämpfen, bis die Parteitage der Jahre 1906 bis 1908 den Ausschluss der dort als „Anarcho-Sozialisten“ betitelten lokalorganisierten Mitglieder thematisierte. Diese bezeichneten sich gemäß ihrer programmatischen Ausformung selber immer häufiger als „Syndikalisten“. Ihre Entwicklung wurde weiterhin maßgeblich durch die Schriften von Fernand Pelloutier (Anarchismus und Gewerkschaften), Arnold Roller (d. i. Siegfried Nacht: Der soziale Generalstreik) und vom Konzept der französischen „bourses du travail“, den sogenannten „Arbeiterbörsen“, geprägt. Im Jahre 1908 fasste die SPD auf ihrem Parteitag in Nürnberg einen Unvereinbarkeitsbeschluss mit den lokalorganisierten Gewerkschaften, woraufhin nur etwa 8.000 der insgesamt ca. 16.000 Mitglieder in der FVDG verblieben. Die weitere programmatische Ausrichtung des Syndikalismus Diese prägten fortan den Begriff „Syndikalismus“ in Deutschland und darüber hinaus und gaben sich im Jahre 1911 das Programm „Was wollen die Syndikalisten?“. Das ideelle Fundament speiste sich zusätzlich vornehmlich aus den Schriften Peter Kropotkins und trug die Bezeichnung „Kommunistischer Anarchismus“. Die Syndikalisten der FVDG setzten sich nicht nur für bessere Lohn- und Arbeitsverhältnisse ein, sondern auch für die Abschaffung des kapitalistischen Wirtschaftssystems zugunsten einer „freien und von der Arbeiterschaft selbst verwalteten Gesellschaftsform“. Dieser „Umformungsprozess“ sollte durch einen Generalstreik eingeleitet werden, in dessen Folge die bislang profitorientierte Produktion zugunsten einer bedürfnisorientierten und solidarischen Wirtschaftsweise umgestellt werden sollte. Die Aufgaben der Bedarfsermittlung, der Verteilung der Produkte, aber generell auch der kulturellen Belange und die der Bildung und Erziehung sollten den Arbeiterbörsen vorbehalten bleiben, in welchen die einzelnen Berufsverbände sowie die außerberuflichen syndikalistischen Vereinigungen zusammengefasst wurden. Dieses Konzept wurde im Wesentlichen formuliert in der Prinzipienerklärung des Syndikalismus von Rudolf Rocker im Jahre 1919 und 1922 von der „Studienkommission der Berliner Arbeiterbörsen“, ausführlicher präzisiert in der Schrift Die Arbeiterbörsen des Syndikalismus. Abgesehen von diesem Kernbereich wendeten sich die Syndikalisten auch gegen alle materiellen und ideologischen Bestrebungen, welche ihrer Auffassung nach einer Forcierung des Klassenkampfes zuwiderliefen, beispielsweise den Nationalismus, den Militarismus und das Kirchenwesen. Der Syndikalismus zur Zeit des Ersten Weltkriegs in Deutschland Infolge ihres Charakters wurde die FVDG mitsamt ihrer Presse (Die Einigkeit und Der Pionier) zu Kriegsbeginn im Jahre 1914 verboten, während die SPD und die Zentralgewerkschaften mit der deutschen Regierung den „Burgfrieden“ schlossen und begünstigt wurden. So mussten beispielsweise die Redakteure vieler SPD-Organe nicht zum Militärdienst antreten. Im Gegensatz zu diesen wurden viele Syndikalisten verhaftet, die öffentlich gegen den Krieg eintraten. Zudem wurden viele Aktivisten der FVDG zum Militärdienst eingezogen, so dass die bloße Aufrechterhaltung der Organisation oberste Priorität erlangte. Dazu gab die Geschäftskommission während der Kriegsjahre zwei Organe heraus, welche nach kurzer Zeit verboten wurden: Das Mitteilungsblatt der Geschäftskommission der Freien Vereinigung deutscher Gewerkschaften (1914–1915) und das Rundschreiben an die Vorstände und Mitglieder aller der Freien Vereinigung deutscher Gewerkschaften angeschlossenen Vereine (1915–1917). Syndikalismus und Anarcho-Syndikalismus in Deutschland nach dem Ersten Weltkrieg Mit dem Ende des Krieges konnte sich die FVDG neu formieren und viele von der Sozialdemokratie enttäuschte Arbeiter ansprechen. Bis 1919 schlossen sich schon etwa 60.000 Mitglieder an. Auf ihrem ersten Nachkriegskongress Ende 1919 vereinigten sich unter dem Programm der genannten Prinzipienerklärung des Syndikalismus in der in „Freie Arbeiter-Union Deutschlands“ (FAUD) umbenannten Organisation bereits über 111.000 Syndikalisten aus dem gesamten Reichsgebiet mit regionalen Schwerpunkten in fast allen größeren Städten, besonders aber im Rheinland, im Ruhrgebiet, in Schlesien und in Berlin. Ortsvereine entstanden vor allem dort, wo die Industrialisierung einsetzte, und zudem zentralgewerkschaftliche Organisationen noch nicht Fuß gefasst hatten, so auch in vielen Kleinstädten und Dörfern. Lag der Branchenschwerpunkt während der Kaiserzeit bei den Bauarbeitern, so kamen jetzt vor allem Metallarbeiter und Bergarbeiter zu zehntausenden hinzu. Auch in der Holz-, der chemischen- und Verkehrsindustrie wuchsen mancherorts starke syndikalistische Organisationen heran. Die FVDG war eine originäre proletarische Organisation. Intellektuelle bildeten auch auf Funktionärsebene eine seltene Randerscheinung. Begrifflich änderte sich 1919 der Organisationsname zugunsten des Elements „Union“, womit den seit Anfang des 20. Jahrhunderts veränderten Produktionsprozessen Rechnung getragen wurde. Die Mitglieder sollten nicht mehr nur nach speziellen Berufsgruppen organisiert, sondern möglichst nach Industriebereichen zusammengefasst werden, um ihre Schlagkraft am Ort zu erhöhen. Zudem änderte sich im Jahre 1921 per Kongressbeschluss die offizielle Bezeichnung „FAUD (Syndikalisten)“ in das bis 1933 gültige „FAUD (Anarcho-Syndikalisten)“, womit das kommunistisch-anarchistische Fundament verdeutlicht wurde. Dennoch wurden die Begriffe „Syndikalismus“ und „Anarcho-Syndikalismus“ in Deutschland sowohl von Zeitgenossen als auch in der Forschung auch synonym verwendet, da sich außerhalb des Anarcho-Syndikalismus keine rein syndikalistische Organisation definieren konnte. Nahestehende Zusammenschlüsse, wie beispielsweise die „Arbeiter-Unionen“ oder die „Föderation Kommunistischer Anarchisten Deutschlands“ und der Syndikalistische Frauenbund, orientierten sich rein unionistisch oder anarchistisch. Die Internationale Arbeiter-Assoziation (IAA) Der Syndikalismus in Deutschland, wenngleich zahlenmäßig nicht größer als etwa 150.000 im Jahre 1922, hatte bedeutenden theoretischen und organisatorischen Einfluss auf die internationale syndikalistische Arbeiterbewegung. Im gleichen Jahr wurde in Berlin in Bezugnahme zur „Ersten Internationale“ von 1864 die „Internationale Arbeiter-Assoziation“ (heute Internationale ArbeiterInnen-Assoziation) nach anarchosyndikalistischen Vorstellungen neu gegründet. Rudolf Rocker verfasste die Prinzipienerklärung und stellte zusammen mit Augustin Souchy und Alexander Schapiro bis 1933 das Sekretariat in Berlin. Die IAA vereinigte zeitweilig bis zu zwei Millionen Mitglieder. Ihre stärksten Sektionen hat sie in Europa und Südamerika. Die IAA vertritt den Standpunkt, dass der Begriff „Syndikalismus“ alleine nicht genüge. Syndikalismus: Zum Gebrauch des Begriffs Tatsächlich versuchten autoritär-kommunistische und faschistische Kräfte vor allem in Frankreich, Italien und später auch in Spanien den Begriff für ihre Ziele in Anspruch zu nehmen. Gegenüber manch solcher zentralistischer und nationalistischer Abart mit Bezug auf Georges Sorel muss betont werden, dass sich die internationale syndikalistische Arbeiterbewegung bewusst an den Ideen und Methoden des Anarcho-Syndikalismus orientierte, wie er sich auch in Deutschland formierte. Entgegen mancher Auffassung spielte Georges Sorel für die syndikalistische Arbeiterbewegung in Deutschland keine und in vielen anderen Ländern, wenn überhaupt, nur eine untergeordnete Rolle. In Italien hingegen übte Sorel einen großen Einfluss aus. Benito Mussolini bekannte sich offen zu Sorel und erklärte, dass er von Sorel stark geprägt worden sei.[2] Was die Konkretisierung des Begriffs „Syndikalismus“ dennoch gerade im internationalen Zusammenhang notwendig macht, ist die einfache Tatsache, dass der Begriff von Land zu Land eine andere Bedeutung hat. Er stammt aus dem Französischen von „syndicat“ und bezeichnet in den romanischsprachigen Ländern zunächst einmal lediglich einen weitgehend unbestimmten Gewerkschaftsbegriff. Zur Unterscheidung von sozialpartnerschaftlichen Gewerkschaften wird auch der wenig geeignete, weil inhaltlich nur mäßig bestimmte und ungenaue Begriff „revolutionärer Syndikalismus“ verwendet. Siehe auch Christiaan Cornelissen, Clara Wichmann, Helmut Rüdiger Teresa Claramunt, Salvador Seguí, Ángel Pestaña, Juan Peiró, Diego Abad de Santillán, Luís Andrés Edo Gildensozialismus Literatur Gerhard Aigte: Die Entwicklung der revolutionären syndikalistischen Arbeiterbewegung Deutschlands in der Kriegs- und Nachkriegszeit (1918–1929) (= Freie Arbeiterinnen- und Arbeiter Union Bremen. Streitschrift 1, ZDB-ID 2227240-9). FAU-Bremen, Bremen 2005. Franz Barwich/Studienkommission der Berliner Arbeiterbörsen (1923): „Das ist Syndikalismus“. Die Arbeiterbörsen des Syndikalismus. Verlag Edition AV, Frankfurt am Main 2005, ISBN 3-936049-38-6. Helge Döhring: Anarcho-Syndikalismus. Einführung in die Theorie und Geschichte einer internationalen sozialistischen Arbeiterbewegung. Verlag Edition AV, Lich/Hessen 2017, ISBN 978-3-86841-143-0. Helge Döhring: Syndikalismus in Deutschland 1914-1918. "Im Herzen der Bestie" Verlag Edition AV, Lich/Hessen 2013, ISBN 978-3-868410-83-9. Helge Döhring: Anarcho-Syndikalismus in Deutschland 1933-1945. Schmetterling Verlag, Stuttgart 2013, ISBN 3-89657-062-5. FAU-Bremen (Hrsg.): Syndikalismus – Geschichte und Perspektiven (= Freie Arbeiterinnen- und Arbeiter-Union. FAU Bremen 4, ZDB-ID 2227240-9). Hauptband. FAU Bremen, Bremen 2005. FAU-Bremen (Hrsg.): Klassenkampf im Weltmaßstab (= Freie Arbeiterinnen- und Arbeiter-Union. FAU Bremen 8). Ergänzungsband. FAU Bremen, Bremen 2006. Georg Fülberth: G-Strich. Kleine Geschichte des Kapitalismus. PapyRossa-Verlag, Köln 2005, ISBN 3-89438-315-1. Luigi Ganapini: Revolutionärer und faschistischer Syndikalismus in Italien (1920–1945). In: Jahrbuch für Forschungen zur Geschichte der Arbeiterbewegung Heft I/2007, ISSN 1610-093X, S. 72–77. Bob Holton: British Syndicalism 1900–1914. Myths and Reality. Pluto Press, London 1976, ISBN 0-904383-22-9. Rudolf Rocker: Prinzipienerklärung des Syndikalismus. Kater, Berlin 1920. Hartmut Rübner: Freiheit und Brot. Die Freie Arbeiter-Union Deutschlands; eine Studie zur Geschichte des Anarchosyndikalismus. Libertad Verlag, Berlin und Köln 1994 ISBN 3-922226-21-3. Peter Schöttler: Die Entstehung der „Bourses du Travail“. Sozialpolitik und französischer Syndikalismus am Ende des 19. Jahrhunderts (= Campus Forschung 255). Campus Verlag, Frankfurt am Main u. a. 1982, ISBN 3-593-33045-8 (Zugleich: Bremen, Univ., Diss., 1978). Georges Yvetot: ABC des Syndikalismus. Verlag der Revolution, Wien 1908. Arturo Zoffmann Rodriguez: "Marxistisch und proudhonistisch zugleich": Die Kommunisten-Syndikalisten der Spanischen CND 1917-1924, in: Arbeit – Bewegung – Geschichte, Heft 2017/III, S. 74–96. Clara Wichmann: Die Theorie des Syndikalismus (1920). In: Clara Wichmann: Vom revolutionären Elan. Beiträge zu Emanzipationsbewegungen 1917-1922. Hrsg. von Renate Brucker, Verlag Graswurzelrevolution, Heidelberg 2018, S. 122–148, ISBN 978-3-939045-36-6.

  • Condition: sehr alt und gebraucht, aber sehr gut, siehe Fotos und Artikelbeschreibung
  • Seiten: 402 + 464
  • Erscheinungsjahr: 1864
  • Autor: Carlo Tesi
  • Einband: Halbleder / half leather binding
  • Verlag: Martini
  • Sprache: Italienisch
  • Thema: Geschichte & Archäologie
  • Original/Faksimile: Original
  • Erscheinungsort: Firenze
  • Titel: Storia della rivoluzione polacca : preceduta da un sunto storico
  • Region: Europa
  • Untertitel: Storia della rivoluzione polacca : preceduta da un sunto storico
  • Genre: Studium & Wissen
  • Charakter Familie: Polnischer Auftsnad 1863/1864
  • Anzahl der Einheiten: Vol. 1 + 2 (= complete)

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